Nel mondo 30-50mila persone hanno chip sottopelle

epa05531398 A businessman uses a smartphone while walking in front of a poster in Tokyo, Japan, 09 September 2016. The announcement of US company Apple's new 'iPhone 7' with its Apple Pay service will allow Japanese users to make payments for transportation or everyday services. Cellphones in Japan have a chip to make payments for several years but Apple users have been waiting for this functionality since the launch of the device.  EPA/FRANCK ROBICHON

Dalle 30mila alle 50mila persone al mondo sono ‘taggate’ da un piccolo dispositivo elettronico sottopelle che permette ad esempio di effettuare il riconoscimento entrando in un luogo o anche di aprire la porta di casa. La stima è del Wall Street Journal, secondo cui sono alle porte anche applicazioni mediche per questi piccoli chip.

Gli impianti, della lunghezza di pochi millimetri, sono iniettati nei tessuti grassi in pochi minuti, e sono attivati e letti da radiofrequenze come quelle utilizzate dagli smartphone o dai lettori di carte magnetiche ad esempio all’entrata di edifici. Il quotidiano riporta il caso di un uomo di 32 anni olandese che ha diversi ‘tag’ in giro per il corpo, che usa per aprire la porta di casa, entrare nel parcheggio aziendale o essere riconosciuto all’ingresso dell’edificio dove lavora.

Un giorno secondo i fautori potrebbero esserci anche applicazioni mediche, ad esempio immagazzinando nei dispositivi informazioni necessarie in caso di interventi d’urgenza, come terapie seguite o condizioni mediche particolari. La pratica, sottolineano però i detrattori, può avere implicazioni etiche negative.

“L’uso di un tag è eticamente accettabile ad esempio per una persona che non può tenere una chiave a causa di un’artrite grave o che ha perso la mano – afferma ad esempio Arianne Shahvisi della Brighton and sussex Medical School -, ma se si usano per persone con demenza per trasportare le informazioni che le identificano e per essere sicuri che non perdano le chiavi potrebbe essere un problema, perchè il paziente potrebbe non essere in grado di dare il proprio consenso informato”. (ANSA)

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