Video-documentario, che fine fanno gli smartphone rubati

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SI FA rubare lo smartphone per spiare il ladro, seguendo il destino del device. Non è pura cronaca ma un esperimento sociale: il risultato è Find My Phone, documentario realizzato da Anthony van der Meer, studente olandese di cinema che in una sola settimana su YouTube è stato visto già da oltre 4 milioni di utenti.

Vittima del furto del suo iPhone e colpito dall’idea che tutto quanto ci fosse sopra fosse alla mercé di uno sconosciuto, van der Meer ha deciso di andare più a fondo alla questione, installando un software spia su un nuovo smartphone e facendoselo sottrarre intenzionalmente, per poi seguirne gli spostamenti. Il risultato è un film che fa riflettere su temi complessi come il rapporto tra la tecnologia e la privacy, che ci vede protagonisti.

Per l’esperimento sociale van der Meer ha deciso di non affidarsi alle normali soluzioni di sicurezza, come il tracciamento GPS o il blocco da remoto, troppo semplici da aggirare, ma a un’app per Android, Cerberus, che consente di catturare all’insaputa dell’utente anche audio, video e foto.

Anthony si è così trasformato, inizialmente forse anche in modo inconsapevole, da vittima a carnefice. Preoccupato del fatto che il ladro potesse entrare nella sua intimità attraverso foto, video, messaggi e contatti ancora presenti sullo smartphone, si è ritrovato a fare lo stesso, spiando più volte al giorno gli spostamenti dell’individuo, leggendo i suoi messaggi, ascoltando le sue conversazioni e scattando anche foto. Fino ad arrivare a simpatizzare per l’uomo.

Il breve film (21’29” di durata) raggiunge il suo apice emotivo nel momento in cui Anthony van der Meer ha l’occasione di incrociare lo sguardo con l’uomo in questione. Il fugace momento – l’unico che descrive qualcosa di fisico e concreto in un flusso ipnotico quasi interamente composto da immagini anch’esse rubate e accompagnate da suoni di luoghi estranei – segna infatti un importante momento di svolta nell’economia del racconto. L’incontro rivelerà al giovane regista una realtà completamente differente da quella che si era costruito attraverso i frammenti digitali di quella vita ”spiata”.

Il finale solleva più interrogativi di quante risposte offra. Se un Grande Fratello esiste non dobbiamo cercarlo fuori, in chissà quali organizzazioni che ci spiano attraverso sofisticate tecnologie di controllo di massa, ma all’interno della nostra stessa quotidianità, nell’uso che facciamo di strumenti tecnologici che percepiamo ormai alla stregua di innocui elettrodomestici ma che non lo sono affatto.

L’attuale mondo in cui viviamo, connesso e digitale, sembra essere da un lato fin troppo trasparente e dall’altro del tutto opaco e impenetrabile. Siamo costantemente esposti allo sguardo degli altri ma al contempo ciò che possiamo conoscere è forse solo una rappresentazione, un frammento minimo e fuorviante di un quadro molto più vasto e complesso.

Il rapporto che intratteniamo quotidianamente con la tecnologia è insomma qualcosa di talmente intimo che per la maggior parte del tempo probabilmente sfugge alla nostra assuefatta percezione. Eppure, per comprendere quanto vita e tecnologia siano inestricabilmente connesse e a quali rischi questo ci esponga, basta che in quella routine si apra uno spiraglio qualsiasi, anche banale, come ad esempio il furto di uno smartphone. (fonte)

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