Come difendersi (e prevenire) sexting, video hard e ricatti

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Un gioco, sessuale prima e di condivisione poi, può trasformarsi in un pericoloso boomerang. E un boomerang lanciato in Internet, si tratti di social network o di applicazioni di messaggistica, inizia a ruotare a una velocità che aumenta esponenzialmente con il passare delle ore e dei clic. Ce lo ho ricordato la cronaca di questi ore (dalla storia di Tiziana a quella dei minorenni sardi).

Il mezzo, ovviamente, non ha responsabilità ma, per sua stessa natura, consente ai contenuti e ai commenti di ogni tipo di rimbalzare in una modalità senza uguali nella storia. E con cui si deve fare i conti sia in termini di opportunità sia di rischi.

Una pellicola di un paio di anni fa, «Sex tape – Finiti in Rete», ha fatto sbellicare le sale cinematografiche con le vicissitudini di una coppia che scopriva di aver pubblicato per errore una performance sessuale in un cloud collegato a una serie di dispositivi. Ecco: non c’è niente da ridere. Se fatti per uso personale, foto e video vanno tenuti lontano dalle piattaforme connesse alla Rete. Nel caso in cui li si voglia condividere, bisogna tenere a mente che la diffusione impazzita parte da singoli utenti: è bene inviarli, quindi, solo a persone fidate (evitare sconosciuti e flirt online o offline), e usare canali con la funzione a scomparsa.

Meglio Snapchat, che avvisa anche di eventuali tentativi di salvare il contenuto da parte di chi lo riceve, di Whatsapp. Negli scatti e nelle riprese destinati a viaggiare da uno smartphone all’altro, è inoltre fondamentale assicurarsi di non essere riconoscibili. Il vero dramma di Tiziana Cantone, la 31enne che si è tolta la vita il 13 settembre, è stata la circolazione del suo volto, del suo nome e delle frasi pronunciate con la sua voce.

Se gli accorgimenti non sono sufficienti e ci si ritrova alla mercé di chiunque, il consiglio è di «identificare gli indirizzi di pubblicazione dei contenuti e passare in rassegna i gestori delle piattaforme. Difficilmente le autorità compiono queste operazioni e così facendo si riducono i tempi di intervento», spiega l’avvocato esperto di diritto digitale Guido Scorza. Il primo tentativo da fare è con le piattaforme stesse: «Davanti a una segnalazione della Url hanno tutto l’interesse a procedere con la rimozione per evitare problemi». Contemporaneamente, per accorciare i tempi, conviene rivolgersi a un’autorità competente: «Il Garante per la privacy è preferibile, ha maggiore dimestichezza con la materia e meno casi da affrontare rispetto alla giustizia ordinaria (civile, ex art 700, o penale, ndr)». Anche perché «la norma di riferimento è il Codice per la privacy, quantomeno inizialmente. E non è importante il consenso concesso alla diffusione dei dati personali: anche nel caso in cui si presume sia stato dato, è comunque sempre revocabile».

I riferimenti per il ricorso all’Authority sono disponibili online, come online si può avviare l’iter di denuncia alla Polizia. L’opzione del Garante si rivela anche la più economica (siamo intorno ai 400 euro). In tutti i casi bisogna però tenere conto del fatto che i tempi tecnici per l’analisi della richiesta, il contatto della piattaforma — che raramente è solo una e può trovarsi all’estero — , e la rimozione effettiva non vanno di pari passo con la propagazione a macchia d’olio di quanto sfuggito al controllo. Motivo per cui gli accorgimenti del punto 2 (e la prevenzione di cui si parla nel punto 4) rimangono gli strumenti più efficaci. Bene sottolineare anche come sia diverso il discorso del diritto all’oblio cui si può fare riferimento in un eventuale secondo momento per non rendere rintracciabili gli articoli e il materiale sulla storia considerata lesiva dalla propria immagine. Non ha che fare con i video da rimuovere, ma con quello che può essere poi pubblicato in merito, insomma.

I dati parlano chiaro: un adolescente su dieci conosce qualcuno che ha mandato messaggi con foto e video sessualmente espliciti (fonte: Telefono Azzurro) e il 10% dei dirigenti scolastici si è trovato a dover gestire un caso del genere (fonte: Censis). «I genitori non devono avere un approccio repressivo o tentare di controllare quello che viene pubblicato. Bisogna utilizzare e conoscere le piattaforme — tutte, non solo Facebook — in modo da poter spiegare ai figli come tutelarsi. Scambiamo la praticità e capacità di apprendere dei ragazzini con reale conoscenza dei mezzi, in materia di privacy ad esempio», spiega Paola Brodoloni, presidente di Cuore e Parole Onlus.

L’associazione è presente dallo scorso anno scolastico, in accordo con il Ministero dell’Istruzione, negli istituti con il progetto ScelgoIo per dare ai docenti materiale utile per affrontare il tema in appositi laboratori. L’aspetto della formazione nelle scuole fa parte anche nella proposta di legge sul cyberbullismo già approvata al Senato e attualmente in discussione alla Camera. Il voto è in calendario per martedì 20 settembre. Il testo iniziale con prima firmataria Elena Ferrara (Pd) è stato modificato per fare riferimento non solo ai minorenni ma anche agli adulti. (fonte)

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