Così la scuola entra in ospedale

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Un progetto di Samsung permette ai piccoli malati di seguire le lezioni anche a distanza. Il racconto dei primi mesi al Policlinico Umberto I di Roma. (Panorama.it)

Durante il laboratorio di arte e creatività, Valeria inventa le sue favole guardando i dipinti di Paul Klee. Scrive di un ponte scorbutico danzante e di alberi senza radici che galleggiano sulle barche di una spiaggia. Sorride un po’ di più quando la maestra le mette sotto il naso un compito corretto, il giudizio «Brava!!» e quei due punti esclamativi in un rotondo tratto rosso che brilla sullo schermo. Valeria ha otto anni e va a scuola senza andarci: è malata, da un po’ deve vivere in isolamento, ma con un tablet e una connessione a internet può seguire le lezioni dalla sua stanza. A distanza.

Dal lunedì al venerdì Tiziana si alza troppo presto e guida troppo a lungo: per quattro ore, due al mattino per arrivare da Rocca di Papa a Roma, due alla sera per tornare indietro fino al suo paese. Insegna da una vita, prima in quartieri difficili, oggi a bambini in difficoltà. A volte in aula, altre in videochat. È una figura minuta abbonata ad abbattere il dolore, con due occhi quieti ed espressivi che raccontano, meglio delle parole, un entusiasmo incantevole: «Ai ragazzi» dice «non si può mentire. Se non sei felice di quello che fai, non ti diverti, se ne accorgono. E li perdi subito».

Tiziana di cognome fa Ceroni ed è una maestra. Una delle prime ad aver aderito all’evoluzione dell’iniziativa «Smart Future» di Samsung. Dopo aver vestito di tecnologia 25 classi scuole in sette regioni, in attesa di coinvolgerne un’altra cinquantina nei prossimi mesi, il progetto da settembre sta entrando in alcuni ospedali: a Bergamo e Chieti, vicino Potenza e Perugia, mentre altri ne seguiranno a breve. Anche il reparto di ematologia, assieme a quello di neuropsichiatria infantile del Policlinico Umberto I di Roma, è stato tra i primi a partire.

Qui l’azienda ha attrezzato un’aula con un computer fisso e uno portatile, una grande lavagna interattiva, una stampante, strumenti di comunicazione via web ad alta velocità. Sulla porta svolazza un arcobaleno dipinto di farfalle allegre, al centro della stanza ecco un grosso tavolo basso con sedie minuscole, su una parete un enorme disegno fatto dagli alunni: una strada, alberi e lampioni, un cane e un gatto in posizione speculare, un’ambulanza davanti all’ingresso di un ospedale. Un luogo che tutto sommato non stride in una fantasia tanto colorata.

Chi può, tra i piccoli malati, si accomoda in questa classe luminosa dove i rumori dell’esterno arrivano ovattati. Chi non può, o purtroppo non ce la fa più, riceve un tablet e comunque la classe la guarda da lontano. È incluso, grazie alla tecnologia, quando altrimenti sarebbe fuori gioco. Scrive su quaderni digitali, con una tastiera o un pennino, riceve i compiti da fare, impara, viene interrogato. È un nativo digitale, dunque gli strumenti li conosce a memoria, ma questi usi, forse, non li immaginava nemmeno. Ogni tanto si sfoga, registra un videomessaggio in cui ammette con candore: «Oggi non mi va di fare nulla». Poi condivide con il docente di turno un selfie imbronciato.

È scuola a tutti gli effetti. Con i giorni produttivi e quelli pigri. Per poche ore al mese, se si va in reparto per controlli sporadici; per un quadrimestre, se il ricovero è lungo o non ci si può spostare dal proprio domicilio. Ci sono stranieri, piccoli alunni da altre città. Il programma seguito viene trasmesso all’istituto di appartenenza ed è valido per il percorso formativo di ognuno. Ha il sapore dell’ordinario, dell’abitudine. Conta eccome, anzi di più: «Parliamo di ragazzi che vivono tanti distacchi. Che il giorno prima giocano a pallone o vanno a danza, quello dopo si trovano isolati. Tagliati fuori. Costretti a ridurre i loro contatti con il mondo a una stretta cerchia di medici e infermieri» commenta Roberto Foà, direttore del centro di ematologia del Policlinico Umberto I. «Condurre l’anormalità a normalità» aggiunge «è un enorme passo in avanti. La didattica, con le sue scadenze, gli esami, le interrogazioni, è un supporto psicologico. Tiene vivi. Terribile è l’alternativa: rimanere in una camera a fissare il vuoto oppure la tv».

L’«Istituto comprensivo via Tiburtina Antica 25» è il cappello, ampio nel nome e generoso nelle intenzioni, sotto cui opera il progetto romano di scuola hi-tech in ospedale. La preside, Ada Maurizio, si sottrae, parla poco, lascia spazio alla maestra e a un video dimostrativo di una lezione. In un fermo immagine Valeria ha la bocca spalancata, l’espressione che è un languido equilibrio tra il divertito e il disteso. «Non esiste una formazione ad hoc per prepararsi al meglio a questa esperienza» dice la preside. «I docenti imparano sul campo. Costruiscono il loro bagaglio giorno dopo giorno. Fanno squadra, condividono le loro esperienze, si appoggiano uno all’altro». Serve forza per far forza a chi rischia di perderla troppo presto. (fonte)

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