A rischio la libertà di espressione sulla Rete?

liberta-espressione-reteSarah Jones, la cheerleader che fa tremare Facebook, Google e i giornali online – La cheerleader ottiene 338mila euro di risarcimento da The Dirty, un sito di gossip accusato di diffamazione. Solo che il contenuto giudicato “diffamatorio” viene dal commento di un lettore. Facebook, Google e giornali online preoccupati: “Così censura preventiva”

I colossi del web, da Facebook a Google, stanno tremando di fronte a una storia di sesso che rischia di metterli in ginocchio. Nessuna partecipazione diretta di Mark Zuckerberg o Larry Page nella cronaca a luci rosse, che vede invece coinvolta una ex cheerleader: al cosiddetto “caso Sarah Jones” potrebbe essere legato il futuro della libertà d’espressione in Rete. Tutto è partito da TheDirty, sito scandalistico statunitense che nel dicembre 2012 è stato denunciato per diffamazione dalla 29enne per aver raccontato presunti episodi sconcertanti delle sue attività sessuali. Secondo quanto riportato sul sito, infatti, Sarah Jones si sarebbe portata a letto tutti i giocatori dei Cincinnati Bengals, la squadra di football americano di cui era la ragazza pom-pom. Ricevendo da questa attività anche diverse malattie di origine sessuale.

Il caso legale in questione, è bene specificarlo, era slegato da quello che aveva visto la Jones qualche mese prima dalla parte degli imputati: nel suo ruolo di insegnante in una scuola superiore del Kentucky avrebbe avuto rapporti sessuali con un minore. In teoria TheDirty, nel raccontare i fatti, sarebbe stato protetto da una legge federale statunitense del 1996, il Communications Decency Act, che difende i siti dalla diffamazione online: TheDirty infatti non aveva scritto direttamente la notizia ma si era limitato a pubblicare il commento di un lettore. Nel luglio 2013 però il giudice William Bertelsman ha decretato che la storia era sostanzialmente falsa e ha rifiutato questa immunità, punendo il sito al pagamento di 338 mila dollari a favore della ex cheerleader.

La reazione dei colossi del Web

Da qui si è scatenato il putiferio. Se la decisione del giudice dovesse essere confermata dalla corte d’appello, praticamente tutti i siti sarebbero fuorilegge perché direttamente responsabili dei contenuti postati da altri sulle loro pagine. Facebook e Google, per esempio, con le loro varie diramazioni, da Youtube e Instagram, arrivando poi a Twitter e Amazon: tutte queste realtà sarebbero quindi processabili per ciò che gli utenti postano sulle loro piattaforme. Nel novembre del 2013 infatti è arrivata la reazione da parte dei big della Rete: “Se i siti web sono soggetti alla responsabilità per non aver rimosso i contenuti di terzi ogni volta che qualcuno ha qualcosa da obiettare, saranno soggetti al veto preventivo di chi potrebbe ritenersi offeso dandogli un potere illimitato di censura”, si legge nel documento depositato, tra gli altri, da Facebook, Google, Microsoft, Twitter, Amazon, Gawker e BuzzFeed. La sentenza ha del “grottesco”, sottolinea il difensore di TheDirty, David Gingras: “Se la sentenza del giudice Bertelsman rimane in essere, Internet subirà un tracollo…”, afferma l’avvocato. “Mark Zuckerberg potrebbe essere trascinato in tribunale per quello che gli utenti pubblicano su Facebook”.

La Rete a rischio immobilità

Insomma, c’è poco da scherzare: sulla sentenza “The Dirty-Jones” si gioca la libertà degli utenti di Internet di pubblicare ciò che vogliono. Il sistema americano infatti è di common law e, a differenza del nostro civil law, è basato sui precedenti giurisprudenziali, ovvero ciò che decide un giudice diventa un precedente per giudicare le cause simili successive. In pratica la sentenza del giudice Bertelsman potrebbe essere applicata a tutti i casi di denuncia per diffamazione portando la Rete all’immobilità. Per paura di denunce infatti i siti sarebbero costretti a controllare tutto prima che venga pubblicato, uccidendo sul nascere l’istantaneità del web e dei social network.

La difesa della Jones

D’altra parte però la difesa della Jones sostiene che Nik Richie, il proprietario di TheDirty, rilegge ogni commento postato dagli utenti, lo approva e spesso aggiunge dei commenti firmati con il proprio nome. Richie poi è dichiaratamente scandalistico, ha affermato più volte di preferire i post più aggressivi, “più sporchi”, come consiglia anche il nome del sito, e quelli capaci di alzare un putiferio. Lasciare le persone libere di diffamare chiunque potrebbe portare a una carneficina.

Parola alla Corte Suprema

Adesso comunque la decisione spetta alla Corte d’appello. Ieri i giudici hanno ascoltato Nik Richie e Sarah Jones e se dovessero confermare la posizione di Bertelsman probabilmente il caso sarà portato di fronte alla Corte Suprema. Secondo gli esperti infatti qui è in ballo il Primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, quello che difende la libertà di parola e di stampa. Oltre alle nostre chiacchiere online. (corriere)

 

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