Su Facebook (e non solo) l’ISIS vende ragazze come schiave

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INUTILE nasconderlo: Facebook, Twitter, WhatsApp, Telegram e via discorrendo vengono utilizzati dall’Is come da tutti noi. Fino ad ora grande eco ha avuto la presunta abilità con cui gli adepti del Califfo riuscirebbero ad adescare nuove reclute attraverso i social network. Un’affiliazione dai tempi rapidi, pare. Mentre meno conosciuto, ma ugualmente preoccupante, è il fatto che gli stessi strumenti sono sfruttati per vendere schiave sessuali, prima raggirate ed attratte tra le fila del sedicente Stato Islamico. A metterlo in particolare evidenza è un rapporto dell’Università delle Nazioni Unite, frutto di un laboratorio durato due giorni a cui hanno partecipato circa 100 esperti dell’Onu ed entità affiliate, forze dell’ordine, esponenti del mondo dei media e della tecnologia. Il tema: traffico di esseri umani nel Medio Oriente. Uno schiavismo che fino ad ora avrebbe coinvolto ben 5mila yazidi (donne, bambini e uomini), ma anche altre etnie minoritarie.

Calamitate ingannevolmente, con la promessa di essere date in spose ai militanti dell’Is e di condurre una vita agiata, poi rivendute come schiave: è la sorte di molte giovani yazide. “I social media sono usati per facilitarne commercio e traffico”, ha detto Zainab Hawa Bangura, rappresentante delle Nazioni Unite che si occupa delle violenze sessuali perpetrate durante il conflitto, secondo quanto riporta la rivista statunitense Quartz. “Donne e bambine vengono offerte negli stessi forum online in cui si trovano fucili e granate”. In proposito, il rapporto menziona svariati casi concreti. Come quello raccontato dal ricercatore del Middle East Research Institute al Washington Post: su una pagina Facebook ha scovato la foto di una ragazza “con un colorito scuro e la frangetta sugli occhi”, di un’età apparente attorno ai 18 anni. E tanto di prezzo: “È in vendita per ottomila dollari”, scriveva l’offerente. Il post è stato rimosso. Ma non è il solo. Nello stesso modo, yazide sono state messe in vendita su Telegram, dove è stata fatta circolare la loro foto, comprese informazioni sull’età, stato coniugale, e collocazione. E ancora: in Libano 75 donne rifugiate siriane sono state rapite e comprate attraverso una sorta di agenti “usando tecnologie digitali come WhatsApp per condividere la foto delle vittime”, si legge nel resoconto. Un altro fenomeno, invece, vede le donne ridotte a mo’ di esca per attirare gli uomini: ai potenziali combattenti è promesso “libero accesso” alle catturate, e l’offerta viene sia pubblicizzata sui magazine online o nei commenti dei video caricati su YouTube, sia effettuata con campagne più personalizzate.

Tuttavia, non c’è solo il “lato oscuro” della tecnologia. Se è vero che i social network fanno ancora fatica nel contrastare la propaganda Isis (anche se ultimamente sono stati fatti molti progressi), così come il loro utilizzo scorretto, è anche vero che sono anche degli ottimi strumenti di contrasto nonché per noi ormai indispensabili. Gli esperti delle Nazioni Unite suggeriscono, allora, un approccio maggiormente proattivo: veicolare attraverso le stesse piattaforme dei messaggi che hanno l’obiettivo opposto, ovvero aumentare la consapevolezza riguardo alla schiavitù e a quale sia la reale vita sotto l’Isis. Un altro metodo potrebbe essere quello di identificare gli individui vulnerabili alla propaganda del Califfo, basandosi sui contenuti pubblicati sulle loro bacheche e i dati geospaziali. Così da inviargli segnali d’allerta e informazione di assistenza. Sulla scia di ciò che Facebook fa con chi è a rischio suicidio; o dei due programmi pilota di Google il cui obiettivo sarebbe di indirizzare chi cerca siti jihadisti su quelli che li combattono. (fonte)

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