Social network, luoghi di odio e indottrinamento?

SOCIAL-ODIO

Internet sotto accusa, ma i terroristi di Charlie Hebdo sono stati arruolati in carcere. I ministri europei chiedono più controllo sui social network, che sarebbero luoghi d’odio e indottrinamento. Ma non per gli autori delle stragi a Parigi.

La guerra, qualunque, guerra, ha un nuovo fronte nella Rete, luogo di sabotaggi, arruolamenti, trasmissione degli ordini e spionaggio.

Non sorprende, dunque, che dopo la strage di Parigi molti ministri dell’attuale governo francese, presieduto da Manuel Valls, abbiano chiesto un giro di vite sul web: più controlli, in particolare sulle reti sociali per censurare gli “appelli all’odio”.

I ministri degli Interni di 11 Paesi dell’Unione Europea, tra cui inevitabilmente l’esponente francese Bernard Cazeneuve, hanno sottoscritto domenica un documento che ritiene indispensabile la collaborazione con gli operatori di Internet per individuare ed eliminare contenuti che incitino al terrore.

Il ministro francese degli esteri, Laurent Fabius ha ipotizzato, in una intervista a France Inter, nuove “forme di regolamentazione” per la Rete, mentre il premier Valls ha auspicato che da Internet scompaiano “spaventose parole di odio”.

La Francia non è la sola a prevedere un setaccio più fitto sull’informazione che circola via Internet. Il primo ministro David Cameron, impegnato nella campagna elettorale, ha spiegato che, se fosse rieletto, il suo governo metterà al bando gli strumenti che permettono di comunicare in forma criptata, perché potrebbero essere usati da gruppi terroristici per organizzare i loro movimenti. Sotto questa voce, per capirsi, potrebbero ricadere programmi quali Whatsapp, Snapchat, iMessage, diventati ormai “pane quotidiano” nella comunicazione fra le persone.

Ed è proprio questo il livello che più preoccupa le istituzioni: la comunicazione sulle reti sociali. Secondo Robert Hannigan, il nuovo capo dell’agenzia di sorveglianza britannica Gchq, Facebook, Twitter e altri siti e servizi online sono diventati i “centri di comando e controllo” per i jihadisti dell’Isis.

Il fenomeno esiste, come ha recentemente spiegato Aymenn Jawad al-Tamimi, il ricercatore della Oxford University che da due anni analizza ogni mossa del “Califfo Ibrahim”, al secolo Abu Bakr al-Baghdadi: “Si serve del web per diffondere in maniera sofisticata e professionale l’invito alla Jihad, adoperando non solo i siti estremisti tradizionali, ma anche i social network. E la sovrapposizione fra Jihad e nuove tecnologie sembra all’origine del crescente successo con le donne: ragazze adolescenti indotte con abili manipolazioni a “cercare la felicità, un marito e dei figli nel Califfato”, secondo al-Tamimi.

Tutto vero e documentato, anche se il tragico casus belli francese e la strage davanti al museo belga dedicato all’ebraismo sembrerebbero smentire questa tendenza. Secondo quanto riferito da Le Monde e altri organi di stampa, i terroristi che hanno fatto irruzione nella redazione di Charlie Hebdo e nel supermercato casher si sarebbero convertiti alla causa del califfato tramite conoscenze dirette e, addirittura, nelle carceri.

Chérif Kouachi, uno dei due fratelli responsabili dell’omicidio dei giornalisti e dei vignettisti, faceva parte di un gruppo detto dei Buttes-Chaumont, quartiere parigino dove il giovane ha incontrato i suoi primi “cattivi maestri” salafisti. Incarcerato nel 2005 prima di partire per l’Iraq, ha fraternizzato con una nuova guida spirituale, Djamel Beghal. Nello stesso carcere, a Fleury-Mérogis, ha fatto la conoscenza di Amedy Coulibably, strappandolo dalla piccola criminalità alla guerra dell’Isis. Coulibably non sembra, allo stato attuale delle indagini, essere un gran frequentatore della Rete, usata soprattutto per giocare a poker e, tristemente, per la pubblicazione del video di rivendicazione che sta facendo il giro del mondo in queste ore.

Anche Mehdi Nemmouche, accusato della strage di fronte al Museo dell’ebraismo in Belgio, avrebbe fatto il salto di qualità in galera, mentre scontava una pena per furto, tra il 2008 e il 2009. A causa della sua condotta, sarebbe uscito di prigione nel 2012, e da allora non c’è traccia visibile di attività online in odore di terrorismo.

E’ innegabile, naturalmente, che sui social network siano comparsi, in special modo negli ultimi giorni, terribili messaggi di sostegno alla strage parigina e, in generale, alla causa contro l’occidente, ma gli amministratori delle reti sono parsi piuttosto solleciti nel cancellarli in seguito alle segnalazioni dei lettori. Una risorsa, quella degli utenti, che si potrebbe pensare di potenziare ed educare, per fare efficacemente argine all’uso militare e propagandistico del web.

Quando esplose il fenomeno dei contenuti prodotti dagli utenti sul web, all’origine del termine web 2.0, si poteva prevedere che questi contenuti avrebbero esplorato tutte le direzioni possibili. Inclusa quella della militanza armata. Oggi questa consapevolezza è giustamente matura, e il web 3.0 che si sperava consistesse in qualche novità tecnologica o strutturale che ampliasse gli orizzonti attuali, potrebbe viceversa caratterizzarsi come l’internet della vigilanza.

Se si trattasse della nostra vigilanza, potrebbe essere il minore dei mali. Ma sembra probabile che saranno molti gli occhi che controlleranno cosa diciamo, facciamo, scarichiamo in Rete. E la possibilità che questo sia accettato, con alcune buone ragioni, come un male necessario si concretizza sempre più a ogni bomba che esplode, a ogni colpo di mitra, a ogni goccia di sangue sparso. (fonte)

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