Minorenni, niente videogiochi tra mezzanotte e le otto

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Succede in Cina, nella lotta al contrasto della dipendenza da Internet. E se lo facessimo anche in Italia?

All’Internet Café di Chen Jia Lin, scavato nella fila continua di casematte parallele ai binari del metrò rialzato di Sihui, i ragazzini che smanettano sugli scassatissimi pc neppure sanno dell’ultimo bando che il governo sta per mettere sulla testa dei cinesi: il divieto di giocherellare online dopo la mezzanotte. Per la verità il Cafè di Chen jia Lin sembra più una ridotta perduta nel tempo che l’avamposto della Cina supertecno di Tencent, Alibaba, Suning e Huawei. E probabilmente dalla politica di un altro tempo, ma qui decisamente attuale, arriva il bando per questi ragazzi costretti a mettere giù il mouse alla mezzanotte di ogni sera in punto per riaccendere il computer solo alle otto del mattino dopo.

Sì, giocare videogame a Pechino vuol dire anche questo, se hai meno di 18 anni: mettere la tua carta d’identità online, permettere allo stato di verificarla e consentire agli sviluppatori del gioco di controllarti, in modo che gli ingegneri possano così realizzare “giochi concepiti per impedire che i ragazzi diventino dipendenti – oltre a software sviluppati per smascherare l’età dei minori”. Sono proprio questi inviti rivolti alle aziende e rivelati dal South China Morning Post, che è il giornale di Hong Kong recentemente acquistato, a proposito, da Alibaba, ad aver fatto scattare l’allarme nel mondo del business. No, non in difesa dei ragazzi, adesso defraudati anche delle loro fantasie online, ma degli affari che quest’anno sfioreranno appunto i 30 miliardi di dollari, facendo celebrare alla Cina l’ennesimo sorpasso sugli Usa: primo paese al mondo per consumo di videogiochi, 537 milioni di giocatori su una popolazione di un miliardo e 388 milioni, aumento del 22.1 per cento all’anno.

Certo, ci sarebbe sempre quel particolare mica piccolo: un giocatore su 4 minorenne. Che fare? Se il bando può anche far sorridere, il wangyin, cioè la dipendenza da internet, in Cina è una faccenda maledettamente seria, malgrado in America l’Associazione nazionale di psichiatria consigli “ulteriori studi e ricerche” prima di includerla nella categoria dei disordini mentali. Ma un conto è la teoria dei manuali, un altro le preoccupazioni concrete dei genitori. Prendete il racconto che fa a Repubblica una mamma come Zhao Mei, 44 anni, impiegata in una compagnia giapponese qui a Pechino. Suo figlio, Xue Mingrun, 15 anni, e già al liceo, e per fortuna di questi problemi a casa non ce ne sono stati. “Però credo che molti genitori saranno favorevoli al provvedimento”, dice la signora Xhao: “Qui si tratta di proteggere la sanità mentale ma anche fisica dei nostri figli, e anche di dare una mano a noi genitori”. Altro che invasione dello Stato nel privato, come diremmo noi. “Piuttosto, dovevano intervenire prima, viste tutte le storie terribili di ragazzi in difficoltà per questa dipendenza: suicidi, malattie mentali”.

A dire il vero, qui non è che siano mai stati con le mani in mano. Timoroso dei cattivi effetti sulla gioventù, già nell’anno 2000 il governo aveva issato il solito bando, questa volta su ogni tipo di playstation: dalla classica Sony all’Xbox di Microsoft. Così gli Internet Cafè pieni zeppi di pc sono prosperati molto più che da noi, raggiungendo la cifra incredibile di oltre 113 mila botteghe. E dando vita a un mercato che s’è sviluppato prima online e oggi soprattutto sul mobile, dove adesso cresce a ritmi ovviamente cinesi, con percentuali del 300 per cento. Come tanti proibizionismi, il divieto di console – caduto solo scorso anno – ha però avuto l’effetto contrario. Lontani da casa (dieci quindici anni fa non tutti avevano il computer di famiglia, anzi) i ragazzini si sono persi in questi Cafè dentro Starcraft o World of Warcraft, i giochi di strategia che qui, per quella tradizione che comprende anche un certo Sun Tsu, sono molto più popolari di quelli d’azione, ma non per questo meno additivi.

Eccola dunque l’origine di quelle cliniche per disintossicazione tristemente famose, a volte diventate veri e propri campi di concentramento: come quella retto dal dottore militare Tao Ren, che stima addirittura in 24 milioni i cinesi, grandi e piccoli, drogati di videogiochi. Il problema è che non tutte le strutture cliniche sono professionali come quella del dottor Tao, che pure non disdegna scansione del cervello e medicamenti vari per liberare i ragazzi dall'”eroina digitale”, tant’è che il governo ha dovuto mettere per iscritto il divieto di usare, bontà sua, l’elettroshock. Esperienze tragiche, parallele a quelle dei ragazzi perduti evocati dalla signora Zhao, e che in alcuni casi hanno portato perfino alla morte. Una realtà drammatica che il fotografo italiano Lorenzo Maccotta ha raccontato in un bellissimo reportage “da embedded”, facendosi ricoverare come malato, rilanciato anche dalla Cnn.

Il bando ai minori, dunque, qui non è che l’ultima tappa della strategia del divieto. Del resto in linea con la politica di tutta la Cyberspace Administration of China, cioè l’organismo che governa la rete, e il cui senso di Internet Openness, di apertura, è riassunto dalla stessa homepage. Provate ad aprirla. Dopo le foto dell’onnipresente Xi Jinping spunta sì pure quella di Mark Zuckerberg in visita ufficiale, malgrado la sua Facebook in Cina sia oscurata: ma se ci cliccate sopra, anche solo per leggere la didascalia, vi si chiede la password di stato, come per tutto il resto del sito, inaccessibile… Divieti, pagine oscurate, parole d’ordine: scommettiamo che prima o poi riusciranno a bypassare anche tutto questo, bando o non bando, i ragazzini rintanati nell’Internet Café di Chen Jia Lin? (fonte)

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