Link Tax, se metti un link paghi il copyright all’editore

Immaginate una biblioteca che, per poter continuare a prestare i suoi libri, debba concludere accordi con gli editori di tutti i libri che possiede, volti a ottenere un’autorizzazione al prestito, che potrà essere gratuita o a pagamento. O ancora, i gestori di un servizio di hosting o di file sharing obbligati a verificare di volta in volta se il file condiviso, inviato o ospitato è o meno protetto da copyright.

Sono alcuni degli esempi prospettati da Matteo Rainisio, Vice Presidente di ANSO – Associazione Nazionale Stampa Online come conseguenza della proposta di riforma sul Copyright in discussione alla Commissione Europea. Perplessità sulla direttiva sono state avanzate anche da Confindustria Digitale , nella persona del presidente Elio Catania, e Raegan Mac Donald , Head of EU Public Policy Mozilla, ha scritto un chiaro documento sul tema: “In tutta Europa Internet è a rischio. L’attuale proposta di riforma sul Copyright è retrograda e minaccia il potenziale europeo in ambito di innovazione e competizione”.

La riforma e le sue criticità

La normativa europea in materia di Copyright è rimasta a lungo ferma al periodo precedente l’avvento di Internet, quando regnavano ancora carta e inchiostro. Era dunque necessario mettere mano alla materia. Circa due anni fa, nell’ambito dell’iniziativa di rinnovamento del Mercato Unico Digitale, la Commissione Europea ha annunciato il suo intento di rinnovare il quadro normativo in materia di Copyright.

La proposta emersa a fine del 2016 ha però deluso le aspettative di molti stakeholders, giuristi e startup. In un primo momento, la Commissione Giuridica (JURI) del Parlamento Europeo ha pianificato una votazione sulla riforma per il febbraio 2017. Di rinvio in rinvio si è arrivati a quella che sembra essere la data definitiva: il 24 aprile 2018.

I due articoli maggiormente al centro della bufera sono l’11 “Protezione delle pubblicazioni di carattere giornalistico in caso di utilizzo digitale” e il 13 “Utilizzo di contenuti protetti da parte di prestatori di servizi della società dell’informazione che memorizzano e danno accesso a grandi quantità di opere e altro materiali caricato dagli utenti”. La loro approvazione distruggerebbe tutele essenziali per gli intermediari: piattaforme come Wikimedia YouTube DeviantArt diventerebbero responsabili per ogni contenuto ospitato e dovrebbero controllare l’incontrollabile, cioè i diritti di tutti i contenuti pubblicati dagli utenti.

Inoltre l’art. 11 introdurrebbe una sorta di Link Tax ovvero la possibilità per gli editori di farsi pagare i diritti per la semplice pubblicazione del link ad un articolo, quando il link incorpora un estratto di notizia: i diritti di copyright verrebbero estesi così al titolo, agli snippets, fino alle Url SEO friendly .

«A peggiorare le cose è il fatto che non si parla solo di copyright, ma anche di auxiliary rights, di diritti connessi, secondari. Nel caso del giornalismo, non è l’autore del pezzo a ricevere il compenso per ogni link o citazione, ma l’editore – sottolinea Matteo Rainisio –. Arrivando a casi estremi: un politico o un artista intervistato da un giornalista, per poter condividere sul proprio sito o sui propri canali social l’articolo in cui si parla di lui, dovrebbe raggiungere un accordo con l’editore, per non incorrere in violazione del copyright».

La normativa inoltre limiterebbe l’utilizzo del text data mining . Si limiterebbe così l’accesso a saperi condivisi, con conseguenze che impatterebbero non solo nel mondo dell’informazione e della comunicazione, ma anche la ricerca indipendente. Più in generale, la proposta minaccia le fondamenta della libertà di espressione online.

Precedenti europei

Per avere un’idea delle possibili conseguenze della normativa, basterebbe guardare a quello che succede nei paesi dove normative simili sono già state introdotte. Su tutti i casi di Spagna e Germania.

In Spagna una normativa altrettanto stringente in tema di copyright è stata adottata nel 2014. Come prima conseguenza, sono scomparsi gli aggregatori di notizie, incluso Google News. Wikipedia si difende evidenziando il fatto che i server sono fuori dalla Comunità Europea, ma questa linea non potrà reggere a lungo, poiché il diritto si esercita là dove viene percepito. I piccoli editori sono quelli che ne hanno risentito maggiormente, ma in generale si è registrata una diminuzione del traffico di notizie online. E per i grandi editori il traffico è sì cresciuto, ma meno che da noi o in altri paesi. Uno scenario simile si è verificato in Germania, dove però la legge è meno stringente. Google News continua a esistere, ma solo con titolo e foto, senza estratti, e gli aggregatori di notizie ci sono ancora, ma in forma ridotta. Eppure il legislatore europeo non sembra aver preso in considerazione queste esperienze non proprio riuscite.

«La normativa europea obbligherebbe a stipulare accordi diretti con ogni blog, testata, ecc… che si vuole linkare, e una volta raggiunto l’accordo si potrà stabilire se il link sarà gratuito o a pagamento – spiega Matteo Rainisio –. In sé potrebbe essere anche una formula corretta, ma i giganti come Google e Facebook non avrebbero interesse a stipulare accordi con i piccoli editori e le piccole realtà, si limiterebbero a regolare i loro rapporti con i ‘Big’, anche perché la legge non obbliga a trovare accordi con tutti gli interlocutori potenziali. Inoltre, l’estensione del diritto potenzialmente illimitata: anche i tweet saranno protetti da copyright?»

La Spagna ci insegna inoltre che l’indebolimento dei piccoli editori può avere conseguenze pesanti, come il delegare all’estero la gestione delle news locali. Giocando sulla comunanza linguistica, molti siti di informazione locale spagnoli sono in realtà messicani. «Ci sono giornalisti messicani accreditati alla Comunità Europea per produrre informazioni rivolte al mercato spagnolo – racconta Rainisio –. Siamo sicuri che sia una cosa positiva rischiare di farci raccontare quello che capita sotto casa nostra da altri? Di mettere l’informazione locale europea in mano ad altri paesi?».

Per una riforma al passo con l’era digitale

Per chiedere una riforma del Copyright più eque e al passo con l’era digitale, Mozilla ha avviato la campagna ChangeCopyright , che mira a coinvolgere i cittadini europei nel far sentire la propria voce ai rappresentanti al Parlamento Europeo, in vista della votazione del prossimo 24 aprile.

«Io mi impegno principalmente per l’articolo 11, perché riguarda direttamente il giornalismo e l’informazione; il 13 ha una correlazione solo marginale – conclude Rainisio –. Gli editori però potrebbero dover rispondere dei commenti di un lettore, se questi posta un pezzo preso da un articolo di un’altra testata o di un libro, in seguito all’obbligo di content filtering introdotto dalla normativa. Ancor più preoccupati dall’articolo 13 sono gli operatori di telefonia, che sarebbero responsabili del contenuto veicolato da un loro abbonato: se qualcuno manda in diretta il video di una partita di calcio e poi lo salva nel proprio servizio di cloud, la compagnia telefonica potrebbe doverne rispondere ai detentori dei diritti per mancato controllo».

Negli ultimi mesi, il mondo accademico , le startup raccolte nell’associazione Allied4Startups , ma anche le associazioni di consumatori a livello nazionale, come l’Unione Nazionale Consumatori hanno preso nettamente posizione contro la riforma in discussione.

A livello politico, il PDE – Partito Democratico Europe arriva spaccato al voto. C’è poi un gruppo trasversale di europarlamentari, con a capo Julia Reda , del partito Pirati tedesco (assieme a Marietje Schaake di ALDE, Catherine Stihler di S&D, Isabella Adinolfi del M5S, Michał Boni di EPP e Dan Dalton di ECR), che ha pubblicato su YouTube un video mirato a raccontare pericoli per la libertà d’espressione correlati alla riforma.

Insomma, il percorso verso la data del 24 aprile si preannuncia tormentato e l’esito della votazione per nulla scontato. (fonte)

You may also like...