Gli Stati che censurano i post su Facebook

censurIl newsfeed più censurato è quello degli utenti indiani: a loro Facebook ha inibito l’accesso a 4.765 post pubblicati sul social network tra luglio e dicembre 2013. Lo ha fatto su richiesta del governo, naturalmente, che ha chiesto la rimozione di migliaia di contenuti sulla base delle sue leggi che vietano offese alla religione o allo stato. Ma anche la Turchia di Erdogan, che recentemente aveva messo temporaneamente al bando Twitter e YouTube, non scherza: ha fatto eliminare 2.014 post, che perlopiù criticavano lo stato o Ataturk.

Tredici Paesi hanno fatto rimuovere contenuti dal social network di Zuckerberg negli ultimi sei mesi del 2013: nell’ordine, per quantità decrescente, India, Turchia, Pakistan, Israele, Germania, Francia, Austria, Australia, Emirati Arabi Uniti, Italia, Russia, Gran Bretagna, Bangladesh. Sì, anche il nostro Paese fa parte del club, anche se con solo 5 contenuti rimossi – tutti su richiesta dell’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali della Presidenza del Consiglio. “Si tratta di un ente la cui funzione principale è quella di garantire l’effettività della parità di trattamento tra le persone e contribuire a rimuovere le discriminazioni basate su motivi razziali, etnici o religiosi”, spiega a Wired.it Francesco Paolo Micozzi, avvocato esperto di diritto dell’informatica. “I contenuti rimossi riguardano probabilmente manifestazioni d’odio legate alle discriminazioni, per cui l’UNAR, nel rispetto delle prerogative dell’Autorità giudiziaria, chiede la rimozione degli eventuali contenuti discriminatori. La legge Mancino in Italia rappresenta il cardine legislativo in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa e contempla (all’art. 3) una specifica aggravante, applicabile a tutti i reati punibili con pena diversa dall’ergastolo, e che siano stati commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso“.

Questi dati arrivano dal rapporto sulla trasparenza pubblicato venerdì da Facebook, in cui il social network dà conto delle richieste governative di accesso ai dati o di rimozione di contenuti in tutto il mondo. È il secondo rapporto di questo tipo della sua storia. Il primo era uscito lo scorso agosto – in pieno Datagate – quando le grandi aziende tech si sono trovate nella scomoda posizione di apparire come collaboratori dei programmi di sorveglianza della NSA. Da allora è stata una corsa, da parte dei giganti della Rete, a cercare di mostrarsi il più possibile trasparenti e a prendere le distanze dagli Stati.

Il primo rapporto sulla trasparenza di Facebook – che copriva il periodo gennaio/giugno 2013 –  mostrava però solo le richieste di accesso a informazioni sugli account da parte delle forze dell’ordine e autorità giudiziarie. Questo secondo rapporto, da poco pubblicato, mostra anche le richieste di rimozione di contenuti fatte dagli Stati sulla base delle loro leggi locali. In questo caso Facebook rimuove selettivamente i contenuti solo nel Paese specifico. A guidare il club dei censori sono quindi l’India e la Turchia, ma spiccano pure varie nazioni europee. Germania, Francia e Austria hanno rimosso un’ottantina di contenuti a testa, sulla base delle loro leggi che proibiscono di negare l’Olocausto, spiega Facebook.

Interessante anche la parte sulle richieste di accesso a informazioni degli account da parte delle forze dell’ordine. Qui spiccano invece gli Stati Uniti che, fra luglio e dicembre 2013, hanno mandato 12.598 richieste, accolte da Facebook nell’81% dei casi. Ritroviamo di nuovo l’India, molto attiva, con 3.598 richieste (accolte nel 54% dei casi). E poi una serie di nazioni europee, come Francia, Gran Bretagna, Italia. Negli ultimi sei mesi del 2013 il nostro Paese ha mandato 1.661 richieste su 2.613 utenti (accolte nel 52,50 per cento dei casi). È un dato in linea con Francia, Gran Bretagna e Germania.

Il Datagate ha avuto almeno l’effetto collaterale di aumentare la trasparenza delle aziende della Rete. E al di là delle richieste di accesso ai dati per fini di indagine (a cui però si aggiungono in alcuni casi, come negli Stati Uniti, anche le controverse richieste ai fini di sicurezza nazionale, le National Security Letters), emerge una tendenza crescente, da parte dei governi, a chiedere la rimozione di contenuti, sebbene le leggi locali al riguardo possano essere molto diverse tra loro. Anche Twitter, nel suo rapporto pubblicato lo scorso luglio, evidenziava che il numero di richieste di cancellare dei tweet era salito da due a sette Paesi in solo sei mesi.

Del resto anche l’ultimo Transparency Report di Google mostra un’impennata generale di richieste governative di informazioni sugli utenti: +120% in 4 anni. E sono in crescita anche le domande di rimozione dei contenuti. (wired)

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