Giovani più bravi a scovare le bufale online? No, è una bufala…

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UN’IDEA, sul mondo della tecnologia, sembra dura a morire. Quella che i giovani, i Millennials o più in generale i nativi digitali, siano per semplice ragione anagrafica più rapidi e smaliziati quando si tratta di muoversi appunto fra piattaforme, ecosistemi, siti, applicazioni e novità hi-tech. Se questo è spesso vero nella pratica, spuntano talvolta delle indagini che smentiscono l’equazione competenza uguale cultura e consapevolezza. Anzi.

Una di queste è stata appena pubblicata ed è firmata dalla Graduate School of Education dell’università di Stanford, in California. Racconta come gli studenti presi in esame non siano stati assolutamente in grado di distinguere il vero dal falso sui social network e in generale sul web. Come? Esatto: sono vittime, come i papà, gli zii e le mamme, del fenomeno delle fake news, a cui il Los Angeles Times ha appena dedicato un profondo sguardo dall’interno indagando il lavoro di un sito come LibertyWritersNews, uno dei tanti che pescano a piene mani sui social e guadagnano ospitando pubblicità sulle proprie pagine. Ma anche del mero “rumore” che intasa la rete.

“Molti pensano che solo per il fatto di essere giovani e bravi a usare i social network i ragazzi siano ugualmente abili a comprendere ciò che ci trovano sopra – ha spiegato Sam Wineburg, principale autore dello studio e fondatore dello Stanford History Education Group che ne ha curato la pubblicazione – il nostro lavoro che semmai è vero il contrario”. E cioè che le bufale che circolano sui social network – e per le quali lo stesso Mark Zuckerberg ha annunciato una serie di provvedimenti, dal taglio della pubblicità a un’etichetta che potrebbe presto segnalare i post a rischio frottola – mietono vittime in egual misura fra nativi digitali e utenti meno giovani. Non solo quelle, ovviamente: i test effettuati hanno indagato diverse storture (artificiali o connaturate) degli ambienti digitali e perfino a quelli tradizionali, come distinguere fra un articolo canonico e uno di opinione.

L’indagine ha coinvolto 7.804 studenti di diverse fasce d’età, da quella delle middle school di 12 Stati (cioè le nostre scuole secondarie inferiori) al college, ed è stata condotta con l’obiettivo di individuare strategie pedagogiche in grado di aiutare i ragazzi a distinguere un’informazione autentica o comunque con un buon tasso di veridicità da una inventata di sana pianta o strumentalizzata a tal punto da essere precipitata nel terreno delle panzane assolute. Nel mirino dunque non solo Facebook e Twitter ma anche i post di blog, i forum, i risultati delle ricerche su Google, i semplici siti, la messaggistica e le piattaforme di condivisione fotografica. Cioè tutto quel bagaglio che contribuisce a farci un’idea sui fatti della realtà veicolando i contenuti dei media tradizionali.

Qualche esempio? Anzitutto la difficoltà nel distinguere contenuti comuni dalla pubblicità così come i problemi nel comprendere la fonte di un articolo. Un lavoro lungo, quello dei ricercatori californiani, iniziato nel gennaio del 2015 – dunque estraneo al fortissimo dibattito sul tema fiorito con la scatenata campagna elettorale statunitense e la vittoria di Donald Trump – e che mette al centro il cuore della democrazia: cioè la capacità di conoscere sensatamente per deliberare.

Individuare una fonte credibile o l’autore di una storia così come valutare l’attendibilità di una notizia o trovare la soluzione a un argomento controverso se non palesemente falso usando i motori di ricerca: i test sono stati distribuiti dividendo le scuole medie, le superiori e il college ciascuno in cinque fasce d’età e sottolineando diverse ferite. “In ogni caso e a ogni livello siamo rimasti basiti dalla carenza di preparazione dei ragazzi” hanno scritto gli autori. In un’occasione, per esempio, agli studenti è stato chiesto di spiegare perché non potessero fidarsi di un articolo a tema finanziario scritto da un manager di una banca e sponsorizzato dalla medesima. In molti non hanno citato l’autore e questa partnership come elementi chiave per prendere quel contenuto con le molle. Male anche con i cosiddetti contenuti sponsorizzati, modello relativamente nuovo di pubblicità che dimostra tuttavia di confondere le acque: l’80% dei ragazzi più piccoli ha preso quel tipo di contenuti per vere storie giornalistiche. I fratelli più grandi, invece, non sanno nella stragrande maggioranza a cosa serva la spunta blu, quella che certifica un account verificato su Facebook o Twitter.

“Queste scoperte indicano che gli studenti dovrebbero concentrarsi di più sui contenuti dei post che circolano sui social network piuttosto che sulle fonti – hanno aggiunto gli autori – nonostante la loro familiarità con queste piattaforme, molti di loro non padroneggiano gli strumenti base per identificare le notizie verificate”. Insomma, una grande intossicazione di massa che smentirebbe le tesi tecnoentusiaste secondo le quali il dibattito complessivo si arricchirebbe dal ricorso alla sola informazione digitale.

Ai giovani del college è stato infine chiesto di valutare le informazioni raccolte tramite delle ricerche su Google. La sfida era verificare se certi assunti relativi a certi personaggi fossero fondati o meno: “Dare senso ai risultati delle ricerche è perfino più complicato che sfrondare le proprie bacheche dai post politicizzati – hanno concluso i ricercatori – uno studente che abbia un’alfabetizzazione digitale ha la conoscenza e le qualità di muoversi fra contenuti di tipo diverso per individuare notizie accurate”. Ma nella maggioranza delle situazioni non è stato così. Neanche quando si è trattato di valutare l’affidabilità di un sito: sono bastati piccoli trucchetti, come curare con attenzione la pagine “Chi siamo” o rimandare a qualche sito affidabile, per disorientare i nativi digitali. Portando acqua al pascolo delle bufale digitali e della disinformazione. (fonte)

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