Facebook accusata di ipocrisia e censura

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Oscurate le immagini di Maometto due settimane dopo la presa di posizione di Zuckerberg al fianco di Charlie Hebdo e della libertà di espressione. Il Washington Post: «Un comportamento da ipocrita»

Facebook censura le immagini di Maometto in Turchia: due settimane dopo la netta presa di posizione del Ceo Mark Zuckerberg a difesa della libertà di espressione e contro l’attacco a Charlie Hebdo. Il caso turco è l’ultimo di una serie di episodi in cui il più diffuso social media al mondo oscura pagine scomode ai vari regimi: da quelle degli oppositori di Putin in Russia a quelle dei dissidenti tibetani in Cina. Così il Washington Post non esita a definire il giovane miliardario fondatore di Facebook «un ipocrita», mentre altri parlano di «vuota retorica» di Zuckerberg, solo a parole al fianco di chi difende il diritto di tutti ad esprimere le proprie opinioni.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la decisione dei responsabili del social media (che conta oltre un miliardo e 300 milioni di utenti) di adeguarsi all’ordine emanato da una corte di Ankara, accettando nelle ultime ore di bloccare d’ora in poi tutte le pagine che mostrano le immagini del profeta, ritenute offensive per il mondo islamico. Pena la sua rimozione dalla rete in Turchia, come accaduto in passato per Twitter e YouTube. Un episodio che imbarazza palesemente Facebook, che infatti finora non ha voluto ancora commentare, nonostante la pioggia di critiche e di accuse.

 Solo pochi giorni fa Zuckerberg, sull’onda dello sdegno per l’assassinio dei vignettisti francesi, aveva detto: «Facebook ha sempre seguito le leggi dei Paesi in cui è presente, ma mai lasceremo che un Paese o un gruppo di persone ci ordini cosa la gente intorno al mondo vuole condividere». «Sono personalmente impegnato a costruire un servizio dove si possa parlare senza paura o violenza», aveva aggiunto, chiudendo il suo ragionamento con l’hashtag #JeSuisCharlie.

«Sarebbe ingiusto accusare Facebook di rispettare le richieste legittime avanzate da un governo straniero. Ma – scrive il Washington Post – fare questo mentre contemporaneamente ci si erge a paladini della libertà di opinione sembra un po’ ipocrita, per dire il minimo». Anche perché, fanno notare molti osservatori, quella di accettare compromessi con la censura sembra oramai diventata per Facebook una prassi consolidata, una strategia che guarda più all’opportunità di espandersi in nuovi mercati che al rispetto di principi sacri per le democrazie occidentali.

Così, solo meno di un mese fa Facebook ha cancellato la pagina di Alexei Navalny, l’avvocato in prima linea nella lotta per i diritti civili in Russia. Oscurato come molti altri oppositori del leader del Cremlino Vladimir Putin. E non si contano le azioni di censura a danno dei dissidenti in Cina (potenziale mercato da 648 milioni di utenti), con l’associazione International Campaign for Tibet che ha lanciato una petizione contro l’ostracismo del social media verso le istanze dei tibetani. Per non parlare – come accaduto anche a Google – della richiesta di Pechino di non rendere disponibili informazioni sulla strage di piazza Tienanmen del 1989.

In tanti, poi, ricordano anche le pagine bloccate da Facebook perché ostili al regime siriano. Oppure la recente polemica sulla censura di pitture, opere d’arte o scatti fotografici che immortalano donne che allattano al seno i propri figli.

Secondo la top ten dei Paesi che hanno chiesto nel 2014 a Facebook di attuare misure restrittive in testa spicca l’India, con 4.960 richieste, seguita a grande distanza proprio dalla Turchia (1.893) e dal Pakistan (1.773). Staccate enormemente la la Germania (34 richieste, quasi tutte legate al reato di apologia del nazismo) la Russia (29), la Francia (22) e Israele (15).  (fonte)

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