Dici o scrivi (sui social) parolacce? Per gli altri dici la verità

parolacce

DAVVERO chi dice più parolacce appare più onesto? Sembrerebbe di sì. Stando almeno a una ricerca congiunta di studiosi provenienti da Stati Uniti, Gran Bretagna, Paesi Bassi e Hong Kong e pubblicata sulla rivista Social Psychological and Personality Science.

Il linguaggio osceno e scurrile viene in qualche modo riabilitato o almeno analizzato – anche attraverso una corposa analisi su migliaia di post pubblicati su Facebook – per capire l’effetto positivo e il cambiamento dei costumi nel corso dei decenni. D’altronde non siamo più ai tempi in cui una battuta come Francamente, mia cara, me ne infischio”, quella pronunciata da Clark Gable/Rhett Butler nei confronti di Vivien Leigh/Scarlett O’Hara in Via col vento, poteva costare 5mila dollari di multa ai produttori. Era il 1939.

Secondo David Stillwell, ricercatore in big data analytic all’università di Cambridge e coautore dello studio, ”la relazione fra linguaggio volgare e disonestà è complesso. Imprecare è spesso fuori luogo ma può anche costituire l’evidenza che qualcuno ti stia comunicando la sua opinione reale. Dal momento che una persona non sta filtrando il proprio linguaggio per essere più gradevole potrebbe voler dire che non sta filtrando neanche i suoi punti di vista”. Per provarlo i ricercatori, che hanno simpaticamente battezzato lo studio ”Francamente ce ne importa: la relazione fra volgarità e onestà”, hanno realizzato tre tipi diversi di test.

Nel primo hanno sottoposto a 276 partecipanti statunitensi un questionario, domandando loro di elencare le parolacce più frequenti, insomma le preferite e più utilizzate. Ma di spiegare anche le ragioni e le situazioni in cui sfoderano di solito quei termini.

Nel secondo hanno messo in scena una sorta di esperimento teatrale per far loro determinare se qualcuno fosse davvero onesto o stesse rispondendo in modo socialmente corretto ma probabilmente falso. A quanto pare, quelli che nella prima lista avevano elencato più termini volgari sono risultati essere quelli all’apparenza più onesti.

Nel terzo esperimento, invece, Stillwell insieme a Gilad FeldmanHuiwen LianMichal Kosinski hanno messo sotto la lente i dati da 75mila profili Facebook per valutare l’uso delle parolacce nelle interazioni sociali con gli ”amici”. Insomma, nei post e nei commenti. Bene, secondo l’analisi gli utenti che usano un vocabolario più volgare sono anche quelli i cui schemi linguistici rientrano, in base ai risultati di uno studio ancora precedente, nel territorio dell’onestà. Quantomeno, dell’onestà percepita. Ad esempio utilizzano più spesso i pronomi personali ”io” e ”me”, evidentemente concentrando sulla propria persona il peso di ciò che dicono.

Non è un caso che una ricerca simile arrivi proprio all’indomani del giuramento del nuovo presidente Donald Trump, che da candidato non ha certo lesinato l’uso di parole ingiuriose e di termini volgari. Stando ai risultati dei ricercatori, una dose di volgarità potrebbe dunque tornare utile anche nella comunicazione politica, magari solo a certi profili, visto che le persone tendono ad assegnare un ingiustificato grado di verità a chi le pronuncia. Anche in Italia se ne hanno quotidianamente testimonianze più che deplorevoli.

”Chi ‘parla come mangia’ spesso viene avvertito come genuino, naturale, senza costruzioni – spiega a Repubblica lo psicologo milanese Luca Mazzucchelli, vicepresidente dell’Ordine degli psicologi della Lombardia – per questo arriva in modo diverso all’attenzione dell’ascoltatore. In parte è legato al fatto che l’irriverenza comunicativa prende sempre in contropiede e ‘buca’ la nostra attenzione, in parte è anche vero che si rivolge alla nostra parte più grezza, senza sovrastrutture, vera”.

Il punto, spiega l’esperto, è che il linguaggio è il primo passo per fare breccia nell’attenzione di chi ci ascolta: ”Riuscire a comunicare utilizzando il linguaggio del nostro interlocutore è certo importante – aggiunge Mazzucchelli – ma lo è ancora di più quando riusciamo a entrare nella sua mente, a usare il linguaggio che l’altro magari non esplicita ma coltiva dentro di se: la lingua dei suoi pensieri. E spesso, quando parliamo con noi stessi, siamo molto più ‘sbottonati’ che se lo facciamo pubblicamente”.

Imprecare dunque come via elettiva e tristemente inevitabile per una comunicazione efficace? ”Credo che la vera sfida stia nell’usare un linguaggio comune ma senza scadere nella deriva volgare e offensiva, partire sì dal linguaggio dell’uomo della strada per catturare la sua attenzione ma poi arricchirlo con nuovi spunti e nuove parole. Aiutare le persone a crescere è ciò che ripaga più di tutto, anche in ambito comunicativo”. (fonte)

You may also like...