Sei depresso se posti tante foto sui social (forse)

Se ci parli, con le persone, sembra che la loro vita sia accompagnata da un perenne #maiunagioia. A guardare, invece, sui loro profili social, pare che la festa non finisca mai, con quel susseguirsi di foto di sorrisi, paesaggi meravigliosi, esperienze sempre nuove. Che ci fosse qualcosa di strano era chiaro anche a chi non è uno psicologo, ma adesso la scienza lo conferma: pubblicare continuamente istantanee online potrebbe essere un segno di depressione.

LA RICERCA 

Il risultato è il frutto di uno studio di ricercatori dell’Università di Harvard e dell’Università del Vermont che hanno analizzato 43.950 scatti di 166 utenti di social network, inclusi 71 soggetti che hanno avuto una diagnosi di depressione. I post sono stati esaminati attraverso uno speciale software messo a punto dagli studiosi in grado di identificare, in anticipo, i sintomi della patologia. Il programma è riuscito a individuarli nel 70 per cento dei casi, spesso anche prima dei medici.

LE FOTOGRAFIE 

Quali sono le caratteristiche delle fotografie in questione? In genere sono scure nei colori ma non hanno filtri applicati, contengono volti di persone e tendono ad attrarre più commenti dagli altri utenti rispetto a quelli delle persone che non hanno problemi. Segni, questi, che i medici di famiglia non sono riusciti a cogliere: in appena il 40 per cento dei casi, infatti, professionisti in carne e ossa hanno capito che la persona poteva nascondere qualche difficoltà vedendo quello che pubblicava sul proprio profilo.

«UN POTENZIALE ENORME»

«Il potenziale di questo sistema è enorme», non ha nascosto Christopher Danforth, dell’Università del Vermont, uno dei ricercatori che ha condotto lo studio, pubblicato su EPJ Data Science. D’altronde, oggi condividiamo sempre più contenuti sui social network. Avere a disposizione algoritmi in grado di analizzarli ed evidenziare eventuali segni di problemi malattie fisiche e mentali potrebbe salvare la vita a tante persone. «Pensiamo a una app che comunichi direttamente con il nostro medico e gli segnali cambiamenti nel nostro comportamento prima ancora che noi ce ne rendiamo conto».

Perché si possa arrivare a questo, però, è necessario continuare la ricerca ampliando la platea dei partecipanti. «Sebbene i risultati che abbiamo ottenuto siano molto buoni», ha aggiunto Andrew Reece, coautore dello studio, dell’Università di Harvard. Non solo: restano anche da superare le barriere sull’utilizzo dei dati personali. (fonte)

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