Cosa fa Facebook della nostra vita quando siamo offline

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CHI HA un account Facebook ormai conosce il patto. In cambio dell’utilizzo gratuito del social network, la compagnia ha accesso a qualsiasi informazione personale che condividiamo sulla piattaforma: dai dati anagrafici ai like lasciati sulle pagine di band, siti di informazione e film, passando per la posizione e i post scritti che vengono scandagliati dall’intelligenza artificiale. Niente sfugge al grande occhio di papà Zuckerberg. E l’insieme di notizie così raccolte restituisce un quadro abbastanza veritiero della nostra personalità, al pari della nostra fede politica e religiosa, come ha dimostrato un software sviluppato dai ricercatori del centro di psicometria dell’università di Cambridge.

L’offline.

Eppure, secondo un’inchiesta portata avanti da ProPublica, c’è un di più su cui il social è poco trasparente. Si tratta di tutti quei dati riguardanti la nostra vita offline che ha a disposizione: qual è il nostro reddito, quali e quante carte di credito possediamo, cosa e dove compriamo, persino se siamo o meno proprietari di una casa. Un tesoro d’informazioni di cui Facebook fa man bassa dai cosiddetti data broker: ovvero da delle società terze che collezionano le tendenze dei consumatori tanto sulla Rete quanto fuori dalla grande ragnatela. L’obiettivo è incrociarli con il già elefantiaco catalogo di news che il network ha a propria disposizione per costruire profili degli utenti sempre più dettagliati da rivendere poi alle agenzie pubblicitarie. Con conseguenti rischi per la privacy. Certo, che ci sia un incrocio tra dati online e offline non è una prerogativa della piattaforma californiana e non è nemmeno una novità: la tendenza è in corso da anni. “La gente fa fatica a capire che esiste un mercato d’informazioni che possono essere aggregate e intersecate”, ci spiega Matteo Flora, esperto di marketing online. “E ha un potenziale enorme”.

Una gamma di fornitori sempre più ampia.

Della pratica Repubblica ne ha già parlato nel 2013, quando Facebook ha lanciato Categorie Partner, il servizio con cui Mark Zuckerberg ha messo a disposizione dei propri inserzionisti queste notizie raccolte da aziende terze, in modo da garantire la pubblicità giusta alla persona giusta. Ma, se inizialmente il sistema era attivo solo negli Stati Uniti, oggi è disponibile anche in Francia, Germania e Regno Unito. Mentre i fornitori della rete in blu si sono moltiplicati fino a includere: Acxiom, Experian, Greater Data, Epsilon, Quantium, TransUnion, WPP e Oracle data cloud. Quest’ultimo, in particolare, ha un ruolo di primo piano nel settore grazie all’acquisizione nel 2014 sia di BlueKai, piattaforma basata sul cloud che permette alle società di personalizzare le campagne di marketing online, offline e su mobile, sia di Datalogix, che aggrega e fornisce informazioni relative a oltre due trilioni di spesa dei consumatori di 1500 partner commerciali, tra cui Visa, Mastercard e TiVo.

Difficile uscirne.

Per comprendere meglio quali siano esattamente le informazioni che il social di Menlo Park compra da queste aziende, il sito di giornalismo investigativo ha scaricato una lista di 29mila categorie che Facebook fornisce agli inserzionisti pubblicitari. La scoperta: di queste 29mila, 600 sono riconducibili a dati forniti da terzi e si tratta per lo più di notizie finanziarie. Nessuna di queste categorie, però, risulta presente tra le “Preferenze relative alle inserzioni”: la pagina che Facebook ci mette a disposizione per capire quali informazioni influenzano gli spot che vediamo in bacheca e controllarli. “Non sono onesti”, ha commentato Jeffrey Chester, direttore esecutivo del Center for Digital Democracy. “Le persone dovrebbero poter aver accesso a questo pacchetto”. Inoltre, i giornalisti di ProPubblica hanno messo in evidenza che è difficilissimo uscire fuori da questa forma di profilazione. Per esempio, stando alla loro indagine, impedire a Oracle data cloud di fornire i nostri dati a Facebook richiede ai consumatori statunitensi di spedire via posta una richiesta scritta, con la copia di un documento rilasciato dalle autorità, al responsabile della privacy di Oracle.

Nel nostro Paese.

In Italia, Categorie Partner non è attivo. E sulla possibilità di consentire sinergie così invasive, il presidente dell’autorità Garante per la protezione dei dati personali Antonello Soro è stato abbastanza perentorio: “Abbiamo un ordinamento molto più rigoroso”, aveva dichiarato. Ma non si sa se i dati che riguardano la nostra vita da consumatori offline vengano comunque collezionati da una delle aziende menzionate presenti in Europa e acquisiti da Facebook. L’ufficio stampa del social network, contattato per avere dei chiarimenti in merito, non ha saputo darci risposte.

“In linea teorica è possibile”, spiega l’avvocato Francesco Paolo Micozzi. “E non dobbiamo meravigliarci se un’azienda che vende pubblicità ha interesse ad aggregare quante più informazioni può su ogni singolo soggetto. In questi casi, per il cittadino italiano, è importante che siano rispettate le norme europee in tema di trattamento dei dati personali. In particolare, che l’utente sia stato preventivamente e correttamente informato su finalità e modalità del trattamento dei suoi dati personali. Anche se spesso si tende a dare il consenso al trattamento di dati in moduli che firmiamo ma non leggiamo. Inoltre, il nostro codice della privacy consente all’interessato di esercitare una serie di diritti (articoli 7-10 del codice) tra cui, ad esempio, quello di richiedere a Facebook quali suoi dati personali tratta, quale ne sia l’origine, con quali modalità e per quali finalità lo faccia”. (fonte)

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