Blackhat, il film sugli hacker cattivi

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La prossima Pearl Harbor che affronteremo potrebbe benissimo essere un cyber-attacco”. A dirlo è stato Leon Panetta, ex direttore della CIA durante un’audizione al Senato USA di qualche anno fa. Ci si chiede quanto gli Stati Uniti, e in generale il mondo intero, abbiano fatto per assicurare la necessaria protezione a sistemi produttivi globali, troppo spesso vulnerabili ad attacchi informatici. Il problema è che quando sulla tastiera non ci sono le mani di un hacker “bianco” (whitehat), notoriamente etico e convinto di poter cambiare il mondo mettendo in luce le scelleratezze delle grandi aziende, ma quelle di un blackhat, allora le cose si mettono male, anche per i comuni navigatori della Rete.

La trama

Lo racconta bene Michael Mann, regista e produttore di “Blackhat”, un film in uscita il 15 gennaio negli USA e due mesi più tardi in Italia, distribuito dalla Universal Pictures. Si tratta della storia di un “blackhat” (ex studente del MIT) che viene assunto dal governo per stanare un altro hacker che sta mettendo in ginocchio i sistemi finanziari di tutto il pianeta. Il film ripercorre le intrigate vicende della cyberwar in location suggestive che vanno dalla frenetica Chicago alle strade di Hong Kong, guarda casoproprio il luogo dove Edward Snowden ha rivelato all’ex giornalista del Guardian Gleen Greenwald le prime notizie sulla National Security Agency dando vita al Datagate. La finzione cinematografica mette in scena anche un paradosso non da poco: forze armate statunitensi e cinesi unite per rincorrere il blackhat che minaccia anche attacchi terroristici e danni a centrali nucleari.

Hacker, cracker o blackhat?

Il film Blackhat, il cui nome originale era Cyber, è lo spunto per differenziare la figura dell’hacker da quella del cracker e del blackhat. Gli hacker, almeno secondo la dottrina più ortodossa, sono gli smanettoni etici, coloro che si pongono l’obiettivo di rivelare al mondo le azioni illegali di aziende, banche, uomini politici o altre figure di interesse pubblico. Sotto questa etichetta si possono inserirei volti degli Anonymous che violano reti e sistemi informatici all’interno di determinate operazioni e mai senza una direttiva ben precisa.

I cracker agiscono invece per puro interesse economico. Sono loro che rubano i soldi dal conto in banca dell’impiegato e dalla carta prepagata del diciottenne che aveva messo da parte un piccolo gruzzoletto per il regalo di Natale. Spesso sono giovanissimi e agiscono solo quando hanno bisogno di liquidità ma sempre più spesso vengono arruolati dalle organizzazioni criminali (una volta localizzate principalmente nell’Europa dell’Est) per formare delle piccole bande operanti da remoto.

I blackhat invece sono hacker che agiscono in modalità silenziosa, stealth, soprattutto per scopi di spionaggio governativo. È il caso degli APT1 cinesi, che tra il 2013 e 2014 hanno attaccato testate e aziende statunitensi oppure il team dei Syrian Electronic Army, dichiaratamente pro-Assad. I blackhat sono forse gli hacker più esperti dal punto di vista informatico e quelli che danno meno problemi all’utente medio della rete, almeno in apparenza. Agiscono infatti nel sottobosco, danneggiando strutture che nel lungo periodo possono portare a gravi danni per tutti. Proprio per questo sono i più ricercati, come lo era il Nicholas Hathaway di Michael Mann, prima di passare dalla parte dei buoni. (fonte)

 

 

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