Un malware informatico può nascondersi e dilagare tramite DNA

Partiamo da un punto fondamentale, poiché i ricercatori lo asseriscono in modo netto: “le procedure di sequenziamento del DNA non sono assolutamente sotto attacco e non c’è al momento nessun allarme“. Una premessa d’obbligo per evitare di creare facili allarmismi, visto che il tema di questa notizia potrebbe sembrare più inquietante di quanto – al momento – sia realmente.

In sintesi è stato possibile creare artificialmente un segmento di DNA tale da agire come malware sulle apparecchiature di analisi, dando pieno accesso a tutte le loro risorse all’hacker autore del codice.

Il sequenziamento del DNA infatti unisce azioni che hanno a che fare con la chimica/biologia e altre che invece sono puramente computazionali. Proprio qui risiede al momento la vulnerabilità del sistema, dato che molte delle apparecchiature per l’analisi dei frammenti di DNA fanno un ampio utilizzo di applicazioni scritte in C e C++: se i programmi non sono scritti a regola d’arte, questi linguaggi prestano il fianco a vulnerabilità ampiamente documentate (e sfruttate).

 

Probabilmente, non essendo apparecchiature ‘esposte’ il problema della sicurezza non è stata una delle priorità dei programmatori e il – riuscito – tentativo di intrusione a scopo di ricerca dei tecnici della Paul G. Allen School of Computer Science & Engineering, della University of Washington, vuole proprio rappresentare un campanello d’allarme, prima che il problema possa diventare una reale emergenza.

Secondo i ricercatori, alcune semplici buone pratiche potrebbero ridurre in modo drastico le possibilità di infezione. I ricercatori hanno riscontrato tra i punti deboli dei sistemi di analisi del DNA la mancanza della ‘input sanitization’, ossia di un controllo preliminare sui dati per scovare codice malevolo prima che questo venga effettivamente elaborato e sortisca quindi il suo effetto. Anche l’uso di funzioni non completamente sicure rappresenta un punto su cui è possibile lavorare per rendere i programmi meno vulnerabili agli attacchi. Terzo punto è l’utilizzo di  buffer statici soggetti a possibili overflow: evitarne l’uso è un’altra delle semplici buone pratiche per mettere maggiormente al sicuro i sistemi.

La ricerca aveva un doppio scopo: da un lato valutare il livello di sicurezza dei sistemi deputati al sequenziamento del DNA, dall’altro valutare l’effettiva possibilità di sintetizzare del DNA che agisse da malware. Entrambe le istanze si sono dimostrare fattibili, ma ciò non significa che il problema sia immediato e possa avere ricadute importanti.

Innanzitutto, sintetizzare del DNA è una procedura non alla portata di tutti, per cui portare avanti un attacco del genere non rientra tra le cose facilmente espletabili. I ricercatori hanno avuto modo di creare il frammento di DNA e sottoporlo così com’era ai sistemi di sequenziamento. Un hacker avrebbe dovuto trovare il modo di creare il codice malevolo, inscriverlo nel DNA e far arrivare in qualche modo il DNA modificato a una macchina di analisi senza destare sospetti. Inoltre, il programma usato per il sequenziamento era appositamente affetto dalla vulnerabilità che i ricercatori avevano individuato come critica: non è detto che i sistemi effettivamente utilizzati nei laboratori la riportino e siano così esposti agli attacchi.

Al momento quindi non c’è nessuna emergenza, ma i ricercatori hanno voluto far suonare un campanello d’allarme prima che sia troppo tardi e tutto ciò che ruota attorno al DNA diventi ancora più sensibile di quanto lo sia oggi. Il futuro che si sta dipingendo davanti a noi farà un utilizzo molto più ampio della genetica e i dati del genoma saranno sempre più ‘sensibili’ e da proteggere.

A qualcuno potrebbe sorgere la domanda: ma dietro a tutto ciò ci può essere anche un rischio biologico? Assolutamente no, su questo i ricercatori sono categorici: il DNA in questo caso è un semplice vettore, alla pari di un documento PDF, di un’immagine o un video divertente, come avviene per i malware ai quali siamo normalmente abituati. Ad essere infettate sarebbero solo le macchine che analizzano il DNA e non c’è pericolo che il ‘virus’ abbia effetti sul DNA di organismi viventi. Potrebbe sembrare una precisazione inutile, ma in questo senso i risultati della lettura del DNA sono diversi a seconda del lettore – il silicio e i bit dei computer o il carbonio delle cellule.

I ricercatori dicono anche chiaramente che la loro scoperta non deve essere un freno all’utilizzo, sempre più importante per la cura delle malattie e per la loro prevenzione, dei test genetici: la possibilità di un attacco nella vita reale è – nella pratica – molto più lontana di quanto potrebbe sembrare a prima vista.

In conclusione, gli esperti indicano la via per una maggiore sicurezza e sono gli stessi consigli che valgono per tutti: utilizzare sistemi sempre aggiornati con le ultime patch di sicurezza, oltre a implementare filtri sui dati in ingresso e a utilizzare strategie che minimizzino le vulnerabilità note, come quelle legate all’utilizzo della memoria. (fonte)

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