Perché un poliziotto deve essere anche hacker

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Sempre più spesso le risposte ai reati sono dentro computer, smartphone e tablet. Per questo il poliziotto deve essere anche un hacker in grado di trovare le tracce lasciate in Rete.

Una volta tutto quello che si aveva per risolvere un caso di omicidio erano le prove sul luogo del crimine, eventuali testimoni e una cerchia di presunti colpevoli. Elementi che spesso non combaciavano con il panorama inquisitorio, anzi non di rado si smentivano tra loro. L’evoluzione della tecnica ha permesso di analizzare meglio ambienti e luoghi di interesse anche se la maggior parte del tempo viene ancora utilizzata per ricercare cause e moventi all’interno della vita delle persone.

Poi sono arrivati gli smartphone, contenitori di una tale vastità ed eterogeneità di dati da poter essere considerati come la prova principale di un caso irrisolto, il materiale principe su cui lavorare. La possibilità di usarli per comunicare su piattaforme differenti, sia online che offline (come gli SMS), ha richiesto una serie di competenze maggiori da parte delle forze dell’ordine, composte da sezioni specifiche.

Così agli albori del 2000 è nato il Reparto Tecnologie Informatiche del RaCIS, il Raggruppamento Carabinieri Investigazioni Scientifiche, figura unica Italia con sede a Roma. Sono loro che negli anni hanno letteralmente aperto e trafugato dentro i computer, telefonini e tablet di soggetti coinvolti in vicende poi balzate agli onori della cronaca, come il caso di Yara Gambirasio o l’incendio a bordo del Norman Atlantic che il 28 dicembre 2014, mentre il traghetto si trovava nel Canale d’Otranto, ha provocato 9 morti, 60 feriti e 19 dispersi.

La novità non riguarda tanto le accresciute competenze informatiche dell’Arma dei Carabinieri, dai cui il Reparto dipende, quanto l’apertura degli specialisti alle soluzioni hi-tech che arrivano dall’esterno, anche da aziende private. Proprio nel caso Gambirasio ad esempio, i tecnici del RaCIS si sono avvalsi di Eagle, un lettore USB prodotto da EDR Tools, una startup italiana di Pordenone, grazie a cui il cellulare di Massimo Bossetti è stato analizzato a fondo (e lo è ancora) nel corso dell’indagine per l’omicidio della giovane ragazza di Brembate di Sopra. Oppure Keycrime del poliziotto/sviluppatore Massimo Venturi che dopo un periodo di test è diventato un punto fermo delle indagini criminali di Milano e provincia.

Esistono addirittura siti web che propongono gadget e oggettistica per i moderni agenti delle Forze dell’Ordine, tra cui tracolle con micro-spie, keylogger da attaccare al PC (per scoprire i tasti digitati quando si accede a portali con nome utente e password) e software da installare in remoto sui telefonini per monitorare le mosse di chi li utilizza. Insomma via cappello e occhiali da sole: l’agente digitale oggi è anche un hacker che si confonde in mezzo alla folla e scruta ogni bit utile al suo lavoro. (fonte)

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