Merkel, gli algoritmi di Google e Facebook sono una trappola

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La cancelliera va alla guerra: nel mirino ci sono i giganti della Silicon Valley, assieme alla loro misteriosa creatura, l’algoritmo, in gergo la “black box” (la scatola nera) dell’informazione. Mentre le nostre vite e i nostri dati vengono affidati ai social network e ai motori di ricerca con assoluta “trasparenza”, molto più opaco è ciò che avviene dall’altro lato, ovvero i criteri con cui Google, Facebook o Twitter ci “sputano indietro” informazioni. Ecco perché sul banco degli imputati della leader tedesca finisce l’algoritmo, la sequenza che dà istruzioni su quali contenuti debbano finire sotto i nostri occhi, quando e come: questa “ricetta” è segreta come lo furono decenni fa gli ingredienti della Coca Cola, ma la differenza è che viene aggiornata continuamente e soprattutto che in gioco c’è molto di più. L’informazione infatti condiziona i nostri comportamenti, anche in politica: perciò “i cittadini devono sapere”, dice la leader più potente d’Europa durante una conferenza sui media a Berlino.

Così Merkel lancia il guanto di sfida.

Il j’accuse pubblico di Merkel contro Google, Facebook e compagni suona così: “Gli algoritmi devono essere resi pubblici, così che ogni cittadino possa saper rispondere alla seguente domanda: che cosa influenza il mio comportamento su internet e quello degli altri? Se gli algoritmi non sono trasparenti possono distorcere la nostra percezione, oltre a condizionare e limitare il nostro approccio all’informazione”. Bisogna perciò “fare molta attenzione”, dice lei, individuando nella “black box” una minaccia ai principi democratici. “Le grandi piattaforme del web, attraverso gli algoritmi, stanno filtrando i contenuti mediatici”. Da una parte, i motori di ricerca come Google “filtrano” i contenuti da sottoporci; dall’altra, i social network come Facebook incoraggiano il fenomeno delle “echo chambers”: ci propongono i contenuti già affini alle nostre opinioni, rinchiudendoci nella camera delle nostre certezze piuttosto che aprirci al pluralismo delle idee. Un fenomeno che ha effetti anche politici: favorisce la polarizzazione e alcuni vedono nella trappola dei filtri un inghippo che favorisce i populismi. “Bisogna stare in guardia”, ha detto di recente Caleb Gardner, l’ex consulente di Obama per i social media. Gli esperti lo dicono da tempo: come Eli Pariser, che dal 2011 lancia l’allarme sulle “filter bubbles” (quei filtri che ci ingabbiano nella bolla delle nostre convinzioni).

Potere all’algoritmo, un test: le elezioni Usa.

Un piccolo test è rappresentato dalle elezioni presidenziali statunitensi. Il prestigioso centro di ricerca Pew sta monitorando il frangente elettorale; in uno studio fresco di pubblicazione, titolato “Il tono delle discussioni social sulla politica” e uscito il 25 ottobre, i ricercatori osservano che la maggior parte degli utenti intervistati trova ormai “stressante” interloquire sulla politica via social con persone che non condividono il proprio punto di vista: “Che stress! Che frustrazione!”, dice il 58% di elettori repubblicani e il 60% di democratici. E’ vero che il social “fa” la politica e che l’algoritmo ha un effetto potente, ma è anche vero – dice il Pew Research Center – che cambiare idea, uscendo dalle “camere dell’opinione già fatta”, non è impossibile. Un utente su cinque cambia idea su chi votare proprio per ciò che legge su Facebook & co. “La mia opinione su Trump è peggiorata quando ho letto i suoi tweet”, “La faccenda delle mail di Hillary mi ha fatto capire quanto sia corrotta”: sono solo alcune delle testimonianze raccolte.

Cosa c’è dietro? Il retroscena secondo Lovink.

Come valutare ora il protagonismo tedesco nella sfida ai colossi Usa dell’algoritmo? Lo abbiamo chiesto a uno dei più autorevoli studiosi europei di nuovi media, l’olandese Geert Lovink, che ha fondato l’Istituto per le culture di rete di Amsterdam e ha pubblicato di recente L’abisso dei social media (Egea, 2016). “Il retroscena – dice Lovink – è il tentativo fallito da parte di Germania e Francia nel creare una versione europea di “Baidu” (il principale motore di ricerca in lingua cinese ndr), chiamata Quaero. La storia risale al 2008. Il consorzio, che anche aveva incassato il sostegno della Commissione europea, fallì nel giro di pochi mesi perché sia gli ingegneri che le aziende coinvolte non riuscivano a mettersi d’accordo sui propositi del progetto”. L’incapacità dell’Europa di imporre propri motori di ricerca e social media è un aspetto della questione, secondo Lovink, che non risparmia per la cancelliera giudizi duri: “Se Merkel avesse più coraggio, non si limiterebbe a lamentarsi ma passerebbe all’azione”.

“La vera partita si gioca sulle auto”.

Quale sarebbe un’azione efficace da intraprendere? “Proporre di spacchettare Google e Facebook, una strada che secondo me – dice Lovink – è assolutamente percorribile con le norme antitrust europee”. E cosa c’è davvero in ballo, per Merkel? “Credo che dietro questa mossa ci siano le elezioni tedesche del 2017 e soprattutto il futuro della manifattura delle auto: le macchine tedesche diventeranno schiave di Uber e Google, dei loro software per la navigazione automatica? La Germania farà di nuovo gli stessi errori? Ecco, da come Berlino e Bruxelles giocheranno la partita delle auto a guida automatica capiremo quanto l’Europa può e soprattutto quanto vuole essere incisiva nella sfida alle corporation Usa”. (fonte)

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