Facebook, troppi i post razzisti tollerati

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Facebook denunciato perché una sessantina di post e di pagine contenenti messaggi di odio e di violenza non sono stati cancellati nonostante le richieste.

Tutto è nato per una sessantina di post e di pagine contenenti messaggi di odio e di violenza che non sono stati cancellati nonostante ripetute segnalazioni. “Facebook non ha dato prova di alcuna volontà di cambiare le proprie pratiche riguardo ai messaggi di odio”, ha spiegato Chan-jo Jun, avvocato tedesco di origine coreana. Che, per i reati di “incitamento alla violenza” e “diffusione di odio razziale”, ha denunciato Shane Crehan, Jaspal Singh Athwal e David William Kling, manager della società che gestisce il social network in Germania il social di Mark Zurckerberg. Il procedimento è adesso all’esame della procura di Amburgo, competente a giudicare la vicenda perché la Facebook Germany GmbH ha sede là.

I sessanta post individuati da Chan-jo Jun non contengono solo insulti razzisti, ma anche informazioni false. Analoghe a quelle che con grande facilità vengono lanciate sul web in Italia. Come, per ricordare una delle più celebri, quella secondo cui gli immigrati ricevono una quarantina di euro a testa non appena finiscono in una struttura di accoglienza (ricevono, quando la ricevono, una paghetta di circa due euro). Bufala circolata ampiamente nei giorni dei tumulti nel quartiere romano di Tor Sapienza.

In Italia la questione della eccessiva tolleranza di Facebook verso i razzisti è stata individuata da tempo. L’ha denunciata ormai da due anni il deputato del Partito democratico Khalid Chaouki, diventato bersaglio dei cyber razzisti fin dall’annuncio della sua candidatura. Prima commenti sul suo profilo Facebook (cose come “Beduini!”, “Vi capiscono solo i cammelli”, “Siete invasori da mandare via a calci nel culo”), poi addirittura pagine Facebook aperte appositamente per colpirlo. Come quella intitolata “Khalid? Ma anche no”, dove il volto del parlamentare democratico è associato a quello di un cammello. E poi una pagina (probabilmente ispirata dalla celebre “battuta” di Roberto Calderoli) dedicata a Cecile Kyenge Titolo: “Noi oranghi non ci riconosciamo nella Kyenge”.

Chauki presentò denuncia e fece giungere le sue rimostranze ai vertici di Facebook. I quali – in Italia come in Germania – non pare proprio che perdano il sonno per questo problema. Far rimuovere i commenti razzisti è molto complicato benché nel suo “statuto” Facebook affermi di non ammettere i contenuti che incitano all’odio e ripudi “la discriminazione di persone in base a razza, etnia, nazionalità, religione sesso, orientamento sessuale, disabilità o malattia”. Infatti esiste un’apposita “finestra” che consente agli utenti di segnalare i commenti e i post di questa natura. Che, però, molto spesso restano là.

E’ conflitto che ha ragioni profonde. In particolare uUn’idea molto ampia del concetto di “libertà di manifestazione del pensiero” che include anche le affermazioni più violente, e anche quelle false. E infatti il social di Zuckeberg ha ribadito che non intende modificare il suo regolamento e le sue prassi.
L’indagine aperta ad Amburgo potrebbe segnare una svolta in Europa. Infatti il suo avvio segue di un mese la presa di posizione del ministro della giustizia tedesco Heiko Maas il quale, il 15 settembre scorso, ha annunciato un’azione di contrasto sistematico ai discorsi di odio diffusi sul web. Facebook, al solito, ha garantito una stretta collaborazione e la volontà di rimuovere rapidamente i contenuti razzisti.

Che, però, continuano a essere inseriti e a restare visibili a lungo.
Contemporaneamente è stata avviata nei principali Paesi europei una campagna contro il discorso d’odio che invita sia i professionisti dell’informazione, sia gli utenti, a vigilare sull’hate speech segnalando i commenti e i post offensivi e isolando i loro autori. Quel che però manca è un protocollo d’intervento condiviso che obblighi i social ad agire secondo tempi certi e in base a criteri ben definiti. Il problema dall’hate speech non può essere risolto solo “dal basso” ma è necessario stabilire regole chiare valide a livello europeo.

L’iniziativa dell’avvocato Chan-jo Jun ha un altro pregio. Infatti i destinatari della sua denuncia non sono tecnici informatici, ma manager che si occupano – ai massimi livelli – della raccolta pubblicitaria. E la legislazione tedesca prevede delle aggravanti per chi dall’incitamento all’odio ricava un vantaggio economico. Il sospetto che Chan-jo Jun introduce nel dibattito sull’hate speech nei social è che all’origine di questo lassismo non ci sia solo un’idea molto ampia, fino all’evanescenza, della libertà di manifestazione del pensiero. Ma che tutto sommato i discorsi d’odio vengano tollerati perché “producono traffico”. (fonte)

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