Dimenticare il passato è un diritto (almeno sul web)

CORTE-EUROPEA-OBLIO

La Corte europea di giustizia di Lussemburgo ha deciso che ogni persona ha il diritto di cancellare le informazioni presenti in Internet che la riguardano, e che per esempio il potentissimo motore di ricerca Google deve “permettere che utenti online siano dimenticati”, cancellando le pagine che li riguardano. Impone infatti ai motori di ricerca di bloccare l’accesso ai contenuti che un utente non vuole siano visti (e non cancellare quei contenuti, sarebbe impossibile, come alcuni organi di informazione hanno erroneamente detto).

La sentenza cerca di mettere ordine in un ginepraio di cause e discussioni, che essenzialmente dipendono dal fatto che l’online è molto meno effimero di quanto si pensasse tempo fa; un fatto di molti anni fa è ancora rintracciabile da chiunque, mentre una foto su un giornale è molto più complicata da ritrovare.

Ci sono in Internet foto e testi che risalgono a oltre 20 anni fa, e qualcuno potrebbe sentirsi imbarazzato da quella determinata immagine che lo ritrae ubriaco, o da quella dichiarazione improvvida di decenni fa. La Corte ha stabilito che il diritto alla privacy è più importante de diritto del pubblico a ritrovare informazioni.

Ma non tutto è così semplice

La sentenza è piuttosto problematica, perché negli Stati Uniti va per esempio contro il Primo Emendamento (che garantisce libertà di parola). I motori di ricerca, Google in testa, non sono del tutto convinti che una sentenza come questa sia applicabile. Quanto devono essere approfondite le ricerche che si dovranno fare per cancellare pagine imbarazzanti? Cosa fare quando un politico o un’altra persona di potere chiede di cancellare sentenze o altri particolari della sua vita che sono sempre stati di pubblico dominio? E se un governo autoritario interviene, non si rischia di arrivare alla censura? (focus)

Il caso

Tutto inizia nel 2009, quando il giornale La Vanguardia, pubblica il caso dell’avvocato Mario Costeja, sommerso dai debiti e costretto a vendere la sua casa per riparare alla sua disastrosa situazione economica.Costeja, cercando il proprio nome su Google viene a conoscenza dei fatti che lo riguardano, e inoltra subito una richiesta all’editore circa la rimozione del contenuto, precisando che le cose sono andate diversamente e che ha comunque appianato tutte le sue pendenze.

L’editore si rifiuta, e anche Google, ritenendo il contenuto interessante, nega la disponibilità a rimuovere l’articolo: la questione assume dimensioni importanti, quando Costeja si rivolge all’Agenzia per la protezione dei dati spagnola, che da un lato riconosce la libertà a La Vanguardia di fare notizia, ma intima a Google di eliminare il risultato: il motore di ricerca non ci sta, e impugna la sentenza prima di fronte all’Alta corte Spagnola, la quale preferisce inoltrare la decisione in Europa.

E’ così che il caso Costeja arriva alla Corte di Strasburgo, che deve decidere fra la libertà di informazione, strenuamente difesa dai proprietari dei giornali e dai motori, e la privacy dei cittadini, appoggiata dai legali e dalle associazioni: la questione è delicata ma a influenzare in modo determinante la decisione dei giudici il contenuto delData Protection Act del 2005, per cui la sentenza è chiara e sorprendente.

Google responsabile

Secondo il verdetto, Google è responsabile dei dati diffamatori che compaiono fra i risultati del suo motore di ricerca, anche se questi sono redatti e pubblicati da terzi, e l’utente ha il diritto di chiedere la loro rimozione. Nel caso in cui l’azienda di Mountain View non dia attenzione alla domanda o regolare accoglimento, l’utente può fare denuncia e chiedere l’intervento diretto di un tribunale, che emetta sentenze coercitive e obblighi all’eliminazione del contenuto contestato . Al momento del giudizio ci dovrà essere un certo equilibrio fra il famoso diritto all’oblio e la necessità di informare gli utenti, motivo per cui personaggi pubblici, le cui mosse sono di inequivocabile interesse per la rete, potranno difficilmente godere di questo vantaggio, ma il pronunciamento di Strasburgo facilita la censura di fatti compiuti da persone ordinarie.

“Si tratta di una decisione deludente per i motori di ricerca – spiega una nota di Google – e per gli editori online in generale. Siamo molto sorpresi che differisca così drasticamente dall’opinione espressa dall’Advocate General Ue e da tutti gli avvertimenti e le conseguenze che lui aveva evidenziato. Adesso abbiamo bisogno di tempo per analizzarne le implicazioni”.

La situazione in Italia

La sentenza europea va nella stessa direzione che aveva già preso l’Italia con una decisione simile del 2013: nel caso del nostro paese il contenzioso riguardava un personaggio politico, che con la pubblicazione online degli archivi cartacei di un noto giornale, si era visto pubblicare sul web fatti relativi ad un suo arresto nei decenni precedenti, senza però che fosse precisato che le accuse erano cadute completamente. Al termine di una battaglia legale, che in prima istanza sollevava l’editore dalla necessità di dover aggiornare la notizia e definiva di “interesse documentaristico” la pubblicazione della notizia, l’utente aveva avuto finalmente ragione grazie all’Avvocato Generale della Corte di Giustizia Europea nella causa C-131/12.

Nella decisione definitiva, l’editore era stato obbligato ad aggiornare la vicenda con un nuovo articolo, che doveva essere facilmente visibile e raggiungibile dall’utenza: di lì anche il Garante della Privacy ha recepito l’orientamento di quella decisione iniziando ad accogliere diversi ricorsi da parte degli utenti che volevano preservare il loro buon nome.

La decisione di Strasburgo rispolvera così il diritto all’oblio, una vecchia norma europea che sembrava dimenticata e che su Internet è praticamente inapplicabile, ma la sentenza riapre il discorso, tentando di sradicare il concetto secondo cui sulla rete, si può dire quello che si vuole. In Italia però la normativa è più orientata all’aggiornamento dei contenuti, che alla loro rimozione: per questo, chi vuole cancellare articoli diffamatori, può sorridere, ma non ancora brindare. (alground)

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