Cybersquatting, attenti alla nuova frontiera della contraffazione online

Quando si parla di pirateria online si pensa immediatamente al download illegale di materiale protetto da copyright, come può essere il caso di musica, film, serie tv o anche programmi informatici. C’è però almeno un’altra forma di pirateria che col passare degli anni sta assumendo dimensioni sempre più preoccupanti: il cybersquatting, la registrazione di domini internet che utilizzano illecitamente il marchio detenuto da un altro soggetto.

L’espressione anglosassone cybersquatting, così come la locuzione domain grabbing (da to grab=ghermire) e domain squatting, indica l’attività illegale di chi si appropria di nomi di dominio corrispondenti a marchi commerciali altrui o a nomi di personaggi famosi al fine di realizzare un lucro sul trasferimento del dominio a chi ne abbia interesse od un danno a chi non lo possa utilizzare. (wikipedia)

Qualcuno, per esempio, potrebbe registrare un sito dal nome www.appleiphone.com attraverso il quale vendere cellulari della casa di Cupertino. Ma perché un’attività di questo tipo è illecita? “Prima di tutto, perché si occupa uno spazio web in via esclusiva, impedendo al legittimo proprietario del marchio di utilizzarlo e violando i suoi diritti di proprietà intellettuale”, spiega a La Stampa l’avvocato Gabriele Cuonzo, specializzato in questioni di diritto commerciale e proprietà intellettuale e socio fondatore dello studio Trevisan & Cuonzo. “A meno che non ci sia il consenso del titolare del marchio, questo utilizzo non è consentito. Inoltre, nella nostra esperienza, molto spesso i prodotti commercializzati attraverso questi siti sono contraffatti”.

Il recente report della WIPO (organizzazione mondiale per la proprietà intellettuale) mostra come i casi di cybersquatting siano in continuo aumento e come nel 2016 se ne siano verificati oltre 3mila (+10% rispetto all’anno precedente), coinvolgendo 5.300 domini web. Tra le aziende più colpite, troviamo la Philip Morris – che ha aperto 67 fascicoli in materia – seguita da AB Electrolux, Hugo Boss, Lego, Michelin e anche l’italiana Intesa Sanpaolo.

Ci sono però anche situazioni in cui per le aziende è più difficile capire se rivalersi contro chi sfrutta il loro nome: è il caso degli appassionati che creano un sito utilizzando, per esempio, il marchio di un’automobile allo scopo di creare forum in cui si discute e ci si scambia consigli su quella particolare vettura. “In questo caso, molto dipende dalla policy delle aziende e anche dal tipo di seguito che hanno. Per esempio, un produttore come Harley Davidson, che dà molta importanza al valore emozionale del marchio, valuta con molta attenzione e chiede la cessazione del comportamento solo quando l’uso che si fa del marchio non è consentito”, prosegue l’avvocato Cuonzo.

La vera difficoltà sta nel capire dove si ferma l’attività degli appassionati e dove invece comincia la vendita di prodotti magari contraffatti. “Anche perché, spesso, il confine è più labile di quello che si potrebbe pensare”, spiega invece l’avvocato Giacomo Desimio dello studio Trevisan & Cuonzo, esperto in proprietà intellettuale su internet. “Per questo è importante non solo visionare, ma anche approfondire il contenuto del sito, per assicurarsi, come spesso invece si verifica, che non faccia da ponte per la vendita e la promozione di prodotti contraffatti”.

Per le aziende, pensare di difendersi occupando ogni possibile spazio sul web non è realistico, soprattutto perché si dovrebbero prevedere anche i refusi compiuti dagli utenti che digitano il nome del sito (celebre il caso di una società di e-commerce che aveva registrato tutti i possibili errori del nome Amazon); mentre è più facile monitorare la rete con strumenti adeguati (su internet si trovano anche programmi specifici ) e intervenire nel momento del bisogno per riappropriarsi del dominio.

Una variante, legale, del cybersquatting si è invece trasformata per qualcuno in una forma di imprenditoria online. È il caso di Rick Schwartz , noto con il soprannome di domain king, che nel corso degli anni ha registrato o acquistato circa 3mila nomi di siti internet estremamente comuni, prevedendo in anticipo l’importanza che questi avrebbero avuto e rivendendoli a peso d’oro. Il caso più celebre è l’acquisto nel 1997, per 42mila dollari, del dominio porno.com, ceduto nel 2015 per 8 milioni di dollari (dopo aver guadagnato quasi 10 milioni in pubblicità).

Oggi, però, la nuova frontiera del cybersquatting è rappresentata dai social network: basti pensare all’importanza che hanno ormai raggiunto le pagine aziendale su Facebook. “Si tratta in effetti di un terreno molto fertile per la pirateria, anche perché è ancora più facile agire in modo anonimo”, prosegue l’avvocato Desimio. “Allo stesso tempo, però, è possibile contrastarla efficacemente, perché i social network possono sfruttare strumenti di verifica interna, di cui sempre più spesso si dotano, e possono agire in tempi rapidi. In questo caso, è sufficiente un’attività di monitoraggio, dopodiché starà ai legali rivolgersi a Facebook o altri per chiedere la chiusura della pagina”. (fonte)

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