Così Google difende utenti dalle bufale, aspettiamo Facebook

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Google ha fatto, finalmente, un passo. Adesso tocca a Facebook. Mountain View ha introdotto la nuova etichetta «Fact check» nelle versioni statunitense e britannica dell’aggregatore Google News per segnalare agli utenti gli articoli che confermano o smentiscono la veridicità di una storia. Sono già stati identificati cento siti Internet che operano in modo specifico in questo senso, come lo statunitense PolitiFact e il britannico Full Fact. In un secondo momento saranno coinvolti anche altri Paesi.

Un apprezzabile sistema anti-bufala di cui Facebook avrebbe bisogno come il pane: quasi la metà degli americani si informa sul social network di Mark Zuckerberg e il licenziamento dello scorso agosto dei curatori di «trending, sezione non ancora disponibile in Italia, li ha esposti a un numero sempre crescente di notizie false. E il momento, pre-elettorale, è delicato. Secondo il Washington Post, dal 31 agosto al 22 settembre sono state circa cinque le storie segnalate «indiscutibilmente false» o «profondamente imprecise» (qui un esempio).

Il colosso — come ha spiegato in settembre — è intenzionato a realizzare una tecnologia in grado di arginare il problema. Quello attuale, perché l’accusa precedente al licenziamento era di manipolazione da parte dei curatori per spingere i democratici. Google stessa è stata additata per un presunto favoritismo (o superficialità) nei confronti di Hillary Clinton nei risultati di ricerca. Senza dimenticare come in «Fact check» non metta in realtà direttamente mano editoriale e come con la pur lodevole soluzione rischi di non coinvolgere articoli di fonti tradizionali che meriterebbero l’etichetta. Tornando a Menlo Park, la sfida va oltre «trending», ammesso che il tool arrivi davvero in tempi rapidi: nonostante gli sforzi contenuti nelle ultime modifiche dell’algoritmo, il News Feed è ancora troppo spesso popolato da assurdità di ogni genere che — proprio in quanto tali — diventano virali. E nulla impedisce agli utenti di commentare post altrui con link provenienti da portali nati con il preciso scopo di diffondere bufale.

C’è inoltre una profonda differenza fra il post di un blog, un’opinione di un’analista o la cronaca di un fatto. Facebook li presenta tutti nello stesso modo, senza categorizzarli al grido — ribadito da Zuckerberg durante la sua visita romana — di «non siamo una media company». Di fatto lo sono (sia Menlo Park sia Google) però sempre di più. E i tempi sono maturi per prendere coscienza del ruolo. (fonte)

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