Attenzione ai sex-toys, a rischio la privacy

Quasi quattro milioni di dollari, circa 10mila dollari a testa per ogni cliente. È la cifra che Standard Innovation, azienda canadese produttrice di vibratori smart, ha scelto di pagare per risolvere la class action intentata dai propri utenti. La ragione? La compagnia collezionava informazioni sui gusti sessuali dei fruitori, senza averli debitamente informati.

In particolare, il giocattolo sessuale intelligente finito sotto accusa si chiama We-Vibe. Ed è un classico vibratore a cui nel settembre 2014 l’impresa ha deciso di aggiungere delle nuove funzioni, mettendo in produzione il We-Vibe 4 Plus (al prezzo di 100 dollari, quasi): il vibratore con un tocco smart. Per usarlo è necessario associare via Bluetooth il dispositivo a un’applicazione disponibile sia nel negozio digitale di Apple sia in quello di Google, We-Connect, e che consente ai fruitori tanto quanto ai propri partner di controllare il sex toy da remoto, personalizzandone impostazioni e caratteristiche. Peccato che “all’insaputa dei clienti” proprio quell’app collezionasse “informazioni altamente private e sensibili riguardo l’utilizzo di We-Vibe”, si legge nel testo della causa presentata in un tribunale dell’Illinois, negli Stati Uniti.

Dati che includevano la data e il tempo di ciascuno utilizzo, le impostazioni scelte per ogni “sessione di gioco”. Tutto veniva poi spedito ai server della compagnia in Canada. Non solo, a essere rastrellati erano anche gli indirizzi email degli acquirenti che si sono registrati sull’applicazione. Il che avrebbe consentito alla compagnia di collegare le notizie relative all’uso del vibratore agli specifici account dei clienti. Da qui la decisione presa lo scorso agosto di intentare una causa collettiva, guidata da due fruitori del prodotto che hanno preferito rimanere anonimi. “I dati collezionati sono di sicuro valore per la compagnia”, scrivono nella class action, “ma così facendo Standard Innovation ha dimostrato un grosso disprezzo per il diritto alla privacy dei consumatori nonché violato numerose leggi statali e federali”.

Secondo il New York Times, circa 300mila persone hanno comprato il dispositivo We-Vibe coperto dalla class action e 100mila hanno scaricato l’app. Questa settimana la compagnia ha deciso di pagare 3,7 milioni di dollari per risolvere la controversia. Ma la privacy non è l’unico problemino di We-Vibe, dato che – come ha documentato The Guardian – nel 2016 due hacker hanno dimostrato che il modo in cui il vibratore comunica con l’app non è per niente sicuro, permettendo a chiunque di prenderne il controllo. Ma al di là del singolo caso, la class action è interessante perché riflette una crescente preoccupazione per gli oggetti smart, troppo smart. Che sono sempre di più, anche tra i gadget destinati agli innamorati e al sesso: ultimo in ordine d’arrivo è il preservativo che misura le calorie spese a letto. Un altro esempio lo forniscono i giocattoli: My Friend Cayla, la bambola spia, di recente è stata vietata in Germania.

“La mancanza di standard e di normative in merito consente ai produttori di operare in una zona grigia che diventa sempre più inaccettabile”, commenta Andrea Zapparoli Manzoni, membro del Clusit, associazione italiana per la sicurezza informatica. “Questa curiosa class action lo dimostra, c’è bisogno che i legislatori intervengano. La stessa mancanza di standard fa sì che, dal punto di vista software, questi prodotti siano quasi sempre del tutto insicuri”.  Problemi che, secondo Zapparoli Manzoni, ”potrebbero trasformarsi in un boomerang per utenti, produttori e società in generale, rischiando di vanificare gli  investimenti e creando più danni di quanti siano i benefici derivanti dall’applicazione di queste tecnologie”. (fonte)

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